Trust, pianificazione successoria e tutela dei deboli

Trust, pianificazione successoria e tutela dei deboli

di Giacomo Porcelli1

1. Premessa  

Come ben si evince dal titolo della relazione assegnatami, gli assi cartesiani che individuano il perimetro dell’indagine affidatami son rappresentati, da un lato, da quel peculiare fenomeno che, con termine anglosassone ormai invalso anche nel linguaggio comune, prende nome di “estate planning” e, d’altro, dall’uso in tal ambito dell’istituto del trust, con particolare riferimento alle esigenze di tutela dei c.d. “soggetti deboli”. 

In tale prospettiva ritengo utile premettere, benché si tratti di un dato acquisito alla comune esperienza, che nel nostro ordinamento, all’inesorabile declino che coinvolge da tempo il sistema successorio codificato, corrisponde un sempre e più frequente ricorso a strumenti negoziali e societari di trasmissione della ricchezza alternativi al testamento.

Molteplici ed eterogenee son le ragioni della crisi, in generale del sistema successorio a causa di morte così come normativamente delineato nel nostro ordinamento positivo ed, in particolare, del testamento quale suo principale ed imprescindibile istituto. Per quel che attiene, innanzitutto, all’area delle vocazioni legali, le cause in questione son rintracciabili nella “pietra angolare” del sistema codificato delle successioni mortis causa, ossia nell’inossidabile principio della c.d. “unità della successione”, in ossequio al quale tutto il patrimonio del defunto è di regola soggetto alla medesima disciplina successoria. Il che si traduce in una sorda opposizione a qualsiasi differenziazione del regolamento successorio dal punto di vista dell’origine o della natura dei beni e delle qualità personali degli eredi. A sua volta, sul piano della vocazione ereditaria, ciò implica l’applicazione del criterio della chiamata in quote (astratte) uguali e poi, in sede di divisione dell’eredità, la statuizione delle regole di uguaglianza quantitativa e qualitativa dei lotti, di cui agli artt. 718 e 727 c.c.

Certo, non può negarsi che questo principio di “unità del regime successorio” ha conosciuto deroga per effetto dell’ampliamento, ad opera della legislazione speciale, delle ipotesi – un tempo assolutamente marginali – delle cosiddette “successioni legali anomale, in cui la vicenda successoria si caratterizza in funzione dell’instaurazione di più equi rapporti sociali e della tutela di persone economicamente più deboli. Emblematici in tal senso le ipotesi della successione nel diritto di indennità per mancato preavviso ed a quella di anzianità in caso di morte del prestatore di lavoro (art. 2122 c.c.); della successione nel contratto di locazione di immobili urbani (art. 6, l. 27 luglio 1978, n. 392); della successione al proprietario-imprenditore nel diritto agrario (art. 12, l. 9 maggio 1975, n. 153); della successione nel contratto di affitto di fondi rustici (art. 49, l. 3 maggio 1982, n. 203).

Sennonché, tale disciplina speciale non è riuscita ad assurgere – come è, invece, accaduto in altri settori del diritto privato – al rango di diritto generale delle successioni; ruolo che, di contro, continua a svolgere appieno il sistema codicistico. Anche se non può negarsi che, qualora si tenga presente che i principali cespiti della famiglia (quali la casa di abitazione, i trattamenti previdenziali, i risparmi bancari ed assicurativi, ecc.) son già sottratti al regime ordinario ed assoggettati ad una disciplina “anomala” (nel senso di “speciale”), dovrà convenirsi che, ad onta del dogma delle “successione universale”, il relitto ereditario è ormai costituito soltanto da ciò che residua dal patrimonio del defunto  rispetto a quanto già destinato dalle leggi speciali o dallo stesso defunto attraverso il ricorso a strumenti alternativi al testamento. 

I rilievi sin qui svolti circa le ragioni della crisi del diritto codificato dalle successioni si ripropongono con ancora maggior vigore e fondatezza laddove, dall’area delle vocazioni legali, si passi al campo del diritto testamentario, giacché settore questo che, più ancora di quella, si è rivelato sordo e qualunque istanza di adeguamento ai radicali mutamenti via via intervenuti sul piano sia dell’istituzione familiare che delle forme di organizzazione giuridica del capitale e del processo produttivo.

Non è un caso che, fatta eccezione per le sparute disposizioni normative sostituite (artt. 591, 2 co. e 692 c.c.), abrogate (artt. 593, 594 e 595), o dichiarate incostituzionali, riguardanti la capacità di testare (art. 591 c.c.) e di ricevere per testamento (artt. 592 – 595 c.c.), nulla è stato modificato o aggiunto nella disciplina codicistica del testamento. Ultima, in ordine temporale, l’equiparazione ai coniugi dei componenti della coppia legata da un’unione civile anche in materia successoria, quale corollario dell’acquisto dello “status familiae”, sancita dal comma 21 dell’articolo unico della l. n. 76/2016 (nota come “legge Cirinnà”).

In tal ambito, le ragioni della crisi vanno ricondotte al dogma del “monopolio” del testamento quale strumento non surrogabile di disposizione mortis causa del proprio patrimonio. Questione questa a cui si lega strettamente, de iure condendo, il problema dell’auspicata soppressione del divieto dei patti successori sancito dall’art. 458 c.c. e, de jure condito, quello della ricerca di strumenti negoziali alternativi al testamento. 

A tal proposito va subito detto che non può condividersi l’opinione di quanti dubitano della perdurante necessità della funzione istituzionale della vicenda successoria.

Occorre, invece, distinguere tra crisi della successione mortis causa tout court, quale fenomeno attributivo e crisi della successione volontaria che trova nel testamento il suo unico – ma ormai inadeguato rispetto alle mutate esigenze dei privati – mezzo di espressione. D’altro canto, l’emersione di un sistema successorio parallelo, che utilizza forme di delazione icasticamente definite “triangolari” o “silenziose”, che prescindono e sostituiscono il testamento, conferma che la crisi del diritto ereditario si connota come crisi, non già di interessi, bensì di strumenti giuridici.

Ed invero, costituisce un dato incontestato dell’indagine sociologica che il ricorso al testamento – nelle sue diverse forme contemplate dal diritto vigente – è divenuto sempre meno frequente nella nostra epoca giacché, in previsione della morte, i privati tendono a provvedere alla sistemazione dei propri interessi patrimoniali attraverso regolamenti di natura contrattuale o, comunque, facendo ricorso a strumenti negoziali alternativi. Rispetto a tali “diverse” forme di delazione volontaria, l’inidoneità del mezzo testamentario appare manifesta sul piano sia funzionale che strutturale. Ed invero, sotto il primo profilo il testamento si rivela inidoneo ad approntare un regolamento che tenga conto sia della diversa origine dei beni – che, di contro, imporrebbe un tipo di trasferimento adeguato alla loro diversa destinazione – sia delle differenti qualità e bisogni dei soggetti a cui questi son destinati. Per quanto concerne il secondo aspetto (ossia quello strutturale), quale atto tipicamente unilaterale e revocabile, il testamento non risponde all’esigenza che la disciplina negoziale di complesse situazioni patrimoniali, anziché esser affidata alla solo volontà del disponente possa, invece, esser frutto di un accordo bi o plurilaterale.

Ora, benché non sussistano motivi di ordine costituzionale che si frappongano all’introduzione nel nostro sistema positivo di ulteriori fonti di delazione volontaria diverse dal testamento, deve riconoscersi che l’eventuale ammissione di forme convenzionali – oggi affette da radicale nullità ex art. 458 c.c. – potrebbe, comunque, rivelarsi un rimedio insufficiente.

Paradigmatico è il caso del contratto ereditario di tipo tedesco (l’Erbvertrag previsto ai §§ 2274 ss. BGB) che, integrando un negozio mortis causa, seppur irrevocabile, realizza un’attribuzione patrimoniale de residuo; con la conseguenza che una sua eventuale adozione lascerebbe frustrate le istanze di immediatezza ed attualità dell’attribuzione che giustificano la ricerca di strumenti alternativi al testamento.

Nell’attesa, ormai, messianica, di una riforma del divieto dei patti successori – peraltro sollecitata anche sul piano sia del diritto internazionale privato che del diritto comunitario – la dottrina chiamata ad individuare nelle “pieghe del sistema” forme alternative di trasmissione della ricchezza familiare rispetto all’attuale regime della delazione ereditaria, è tenuta a misurarsi con una fondamentale innovazione introdotta nel nostro ordinamento positivo attraverso il riconoscimento del trust, istituto che – come ci si accinge ad illustrare – sembrerebbe costituire, più di ogni altro, un valido ed efficace strumento, idoneo ad attuare pressoché tutte le finalità per il cui perseguimento i privati avvertono l’esigenza di far ricorso ad istituti alternativi al testamento.

2.1. Il trust. Profili generali  

Prodotto peculiare dell’esperienza giuridica inglese, frutto della feconda interazione tra common law ed equity, come è noto, il trust si configura come istituto – o per meglio dire, come schema negoziale – poliforme per antonomasia, per ciò stesso idoneo, per la sua non comune duttilità, all’assolvimento delle più eterogenee finalità ma, al contempo, irriducibile a qualunque definizione univoca ed esaustiva.

Seppur consapevoli dell’inadeguatezza di una qualsiasi forma definitoria idonea a realizzare una reductio ad unum degli infiniti modelli di trusts che la prassi continua ad elaborare, sembra nondimeno possibile affermare che il ricorso al trust implica – quantomeno nel suo schema più generale ed astratto – il trasferimento, in forza di un atto tanto inter vivos (a sua volta sia revocabile che irrevocabile), quanto mortis causa, da un soggetto (detto “disponente” o “settlor”) ad uno o più altri soggetti (si parla in tal caso di trustee) di una qualunque situazione giuridica soggettiva; quindi, non solo legal estates (come la proprietà su un immobile), ma anche diritti di credito e per sino mere aspettative; con l’obbligo di esercitarla in conformità alle istruzioni impartite dal costituente (oltre che nell’atto istitutivo nella c.d. “letter of wishes”) ed a vantaggio di uno o più soggetti (è questa la figura del beneficiario o beneficiary che dir si voglia), la cui individuazione, anziché esser contenuta nell’atto istitutivo, può anche esser rimessa – come, appunto, accade nei trusts c.d. “discrezionali”) – al trustee o al protector ovvero per il perseguimento di uno scopo (si pensi al “charitable trust”).

Sennonché – come si è già detto – rispetto all’esemplificazione testé delineata, è possibile ipotizzare innumerevoli varianti, essendo la fattispecie suscettibile di assumere nella prassi applicativa plurime e disparate configurazioni. Più in particolare, le principali modificazioni riscontrabili in concreto possono riguardare, indifferentemente, tanto i soggetti quanto l’oggetto del trust.

Sotto il primo profilo, per quel che attiene, innanzitutto, al disponente, oltre ai casi in cui tale soggetto fa del tutto difetto (è il caso dei c.d. implied, constructive, resulting e statutory trust), può anche verificarsi una coincidenza dello stesso sia con il trustee (è il caso dei c.d. trust “statico” o “autodichiarato” che dir si voglia), sia con il beneficiario. Sempre per quel che concerne l’aspetto soggettivo, va, poi, evidenziato che il trust assume di norma struttura quadrilaterale, mediante la previsione di un c.d. “guardiano” (protector, guardian, advisor o enforcer che dir si voglia), investito di una funzione di controllo dell’operato del trustee (con facoltà, talora, anche di disporne la revoca e la sostituzione) e, più in generale, di poteri straordinari (come integrare il numero dei trustees e/o dei beneficiaries ovvero ancora indicare, tra questi ultimi, quelli aventi, di volta in volta, diritto all’attribuzione patrimoniale).

 Relativamente all’oggetto, invece, occorre tener presente che, come si è già accennato, questo può essere costituito sia da legal estates sia da equitable interest, essendo trasferibile al trustee qualunque situazione giuridica soggettiva, sia di diritto che di fatto e, persino, di mera aspettativa.  

Infine, per quel che attiene agli effetti, va sottolineato che l’effetto traslativo in favore del trustee fa difetto nell’ipotesi sia di trust c.d. “statico” (si ricorda che ricorre tale figura allorché è lo stesso disponente a dichiararsi unilateralmente trustee di beni di cui sia già proprietario, così cominciando a detenere non già nell’interesse proprio, bensì nell’interesse beneficiario o dello scopo del trust) – stante la coincidenza, in tal caso, di disponente e trustee – sia di constructive, resulting e statutory trust), che nascono non già in forza di un atto volitivo del disponente, bensì ex lege (o, per meglio dire, in virtù o di una regola di conio giurisprudenziale o di un’espressa disposizione legislativa); con la conseguenza che, mancando la figura del disponente, la fattispecie prescinde da qualsiasi attribuzione al trustee.

Tornando al profilo strumentale e circoscrivendo l’analisi al paradigma base innanzi delineato (e, quindi, al genus degli express trust) va, altresì, precisato che la fattispecie costitutiva del trust, anche laddove consacrata in un unico documento, si articola in due diversi negozi, distinti seppur funzionalmente collegati: quello istitutivo, che detta le regole alle quali il trustee dovrà uniformarsi nella gestione del trust final (c.d. trust instrument) e quello dispositivo che dà luogo al trasferimento in favore del trustee (c.d. vesting deed).

Il primo integra immancabilmente, sia nel caso di trust testamentario che in quello costituito inter vivos, un negozio giuridico unilaterale che, in questa seconda ipotesi si qualifica ulteriormente – fatta eccezione per il trust statico, stante la coincidenza nello stesso tra disponente e trustee – come negozio recettizio, suscettibile altresì di atteggiarsi, di volta in volta, come negozio gratuito, liberale od oneroso.

Venendo al profilo funzionale, mentre – come si è visto – quello traslativo può anche mancare (è il caso, lo si ripete, del trust c.d. “statico”), la costituzione di un trust determina immancabilmente un effetto “segregativo”. Se, infatti, da un lato, il disponente si spoglia definitivamente (o, se del caso, fino a revoca) non solo della titolarità, ma anche di ogni potere di controllo relativamente all’esercizio dei diritti (e, quindi, dei beni in caso di legal estate) oggetto del trust, dall’altro tali diritti risultano affetti da un vincolo di destinazione allo scopo impresso dal costituente, che fa sì che le situazioni giuridiche soggettive trasferite al trustee costituiscano un patrimonio separato da quello personale di titolarità dello stesso, destinato esclusivamente al soddisfacimento delle obbligazioni contratte da quest’ultimo nella relativa gestione e, come tale, inaggredibile dai creditori personali del disponente, del trustee, sia, vieppiù, del beneficiario.

2.2. Trust “convenzionale” e “trust interno”. Il sindacato di meritevolezza ed i presunti profili di incompatibilità con l’ordinamento positivo

È a tutti noto che dal 1° gennaio 1992 – data di entrata in vigore della l. 16 ottobre 1989, n. 364, di ratifica della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985 – il trust è divenuto istituto “riconosciuto” anche nel nostro diritto interno.

Onde evitare pericolosi equivoci interpretativi occorre, peraltro, preliminarmente evidenziare che la Convenzione dell’Aja si connota per due distinti, seppur concorrenti, ambiti di intervento: da un lato, infatti, l’introduzione di norme internazionalprivatistiche uniformi – ossia di norme dirette a consentire l’individuazione della “legge applicabile al trust” – e, dall’altro, la previsione di una disciplina uniforme degli effetti sostanziali (necessari ed eventuali)  derivanti dal suo “riconoscimento”.

Ne consegue, come logico corollario, che attraverso la ratifica della Convenzione non si è introdotto nell’ordinamento italiano un nuovo istituto, ma si è soltanto reso possibile il riconoscimento degli effetti di un trust regolato da una legge straniera che lo conosca, imponendo al giudice di applicarla.

Sempre in via preliminare va, altresì, precisato che una seppur fugace lettura dell’art. 2 della Convenzione è sufficiente per comprendere – come chiaramente si evince dall’ampiezza, genericità ed autenticità della formula descrittiva adottata – che la nozione di trust ivi accolta non è in alcun modo riconducibile né al classico modello inglese, innanzi descritto, né a quello anglo-americano, né a quello cosiddetto “internazionale”. Infatti, ai sensi della citata norma, «per trust si intendono i rapporti giuridici istituiti, da una persona – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico». Il disposto di legge prosegue specificando che «il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una mossa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati al nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dall’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre secondo i termini del trust e le norme particolari imposte dalla legge. Il fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust».

Ben si comprende, alla luce dell’inequivoco tenore di tale previsione normativa, perché mai si sia proposto di definire, con icastica espressione, l’ibrida figura introdotta dalla Convenzione – chiaramente frutto di un compromesso tra differenti culture ed esperienze giuridiche – come trust “amorfo”, che ben esprime la sua ampia latitudine; idonea a ricomprendere fattispecie assolutamente idiosincratiche rispetto al tradizionale schema anglosassone.

Sulla scorta di una lunga e complessa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale costituisce del pari un dato ormai incontestabile quello della piena ammissibilità nel nostro ordinamento, accanto a quelle “stranieri”, di trust “interni”, intendendosi per tali quelli istituiti da un cittadino italiano, residente in Italia, aventi ad oggetto beni siti in Italia e relativamente ai quali sia il trustee che il beneficiario abbiano nazionalità e residenza in Italia e nei quali, pertanto, l’unico elemento di estraneità sia rappresentato dalla legge straniera scelta dal disponente.

Sin da una risalente pronuncia di merito particolarmente nota (intendo alludere a Trib. Lucca 23 settembre 1997, in Foro. it., 1998, I, 2007), fino ai più recenti arresti della Suprema Corte (valga per tutte Cass. 19 aprile 2018, n. 9637, in Guida al dir., 2018, n. 21, 53), si è, infatti, ritenuto, da un lato, che l’art. 6 della Convenzione abbia consacrato inequivocabilmente il principio della illimitata facoltà di scelta della legge regolatrice del trust da parte del disponente, consentendo che la stessa integri il necessario ed, al contempo l’unico elemento di estraneità e di collegamento richiesto e, dall’altro, che al successivo art. 13 (a mente del quale “nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, e ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”) vada attribuito il ruolo di una mera “norma di chiusura” destinata ad operare solo allorché, pur avendo superato lo specifico vaglio operato ai sensi delle altre disposizioni preclusive degli effetti del trust (di cui agli artt. 15, 16 e 18 della Convenzione), il trust sia comunque reputato produttivo di effetti “ripugnanti” per l’ordinamento interno (ad es., perché finalizzato all’evasione fiscale o all’elusione in fraudem legis).

È appena il caso di evidenziare che, ovviamente, la testé accennata questione ermeneutica si pone nell’ipotesi in cui si ritenga che il destinatario della citata norma di cui all’art. 13 della Convenzione sia il Giudice del foro; giacché, laddove, invece, si individui il destinatario della stessa nel legislatore, il problema interpretativo neppure si pone, poiché in tale ottica è decisiva la considerazione che lo Stato italiano si è limitato in sede di ratifica a riprodurre pedissequamente l’art. 13, senza quindi avvalersi in alcun modo delle facoltà ivi previste. 

Non a caso la stessa Suprema Corte si è pronunciata in tal senso affermando che «il trust è un istituto “tipico” del nostro ordinamento e pertanto non occorre al fine di stabilirne la validità, vagliarne la “meritevolezza di tutela”, caso per caso, come impone, per i contratti atipici, l’art. 1322 c.c.». (così testualmente, Cass. 19 aprile 2018, n. 9637, cit.).

In altri termini, l’intervenuta ratifica da parte dello Stato italiano della Convenzione dell’Aja avrebbe sugellato il positivo superamento da parte del trust del sindacato di compatibilità con il nostro ordine giuridico interno. Il che equivale a dire che l’art. 13 della Convenzione è, di fatto, una norma inutilizzabile in sede interpretativa dal giurista italiano. 

Sicché, attualmente, non sembrano possano nutrirsi ulteriori legittime perplessità in ordine al riconoscimento della piena ammissibilità nel nostro ordinamento, accanto a quelli “stranieri” di trust “interni” (o “domestici” che dir si voglia), per tali intendendosi – lo si ripete – quelli che non posseggono elementi di estraneità ulteriori rispetto alla legge regolatrice.

Nondimeno, con ciò il problema della concreta operatività nel diritto interno di tale istituto – indipendentemente dal suo atteggiarsi come “international trust” o come “domestic trust” – è ben lungi dal potersi ritenere risalto, salvo a non voler ritenere che la circostanza che l’art. 6 della l. n. 112/2016 (contenente “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive di sostegno famigliare”, meglio conosciuta come “legge sul dopo di noi”) abbia espressamente previsto la possibilità del ricorso al trust interno, vada interpretare come il segno del definitivo superamento del problema. 

Ed, infatti, ove si considera, da un lato, che – come si è visto – la Convenzione si limita, sotto il profilo del diritto sostanziale, ad individuare gli elementi caratterizzanti di tale figura (art. 2), sancendo, altresì, quali effetti minimi del riconoscimento, la separazione dei beni che ne costituiscono oggetto rispetto al patrimonio del trustee (art. 12), nonché il diritto del medesimo di eseguire gli adempimenti pubblicitari consentiti dalla legge del foro (art. 12) e, dall’altro, che fa tutt’ora difetto una disciplina nazionale del trust, dovrà convenirsi che rimane inalterata per l’interprete la necessità di procedere alla verifica dell’idoneità di tale schema negoziale alla produzione dei suoi effetti caratteristici in relazione ad una pluralità di profili, quali l’introduzione, per suo tramite di una situazione proprietaria atipica (e come tale inammissibile), l’analisi della giustificazione causale del trasferimento, la compatibilità con il divieto ex art. 2740 c.c. e, quindi, per quel che più interessa il nostro tema d’indagine l’utilizzabilità del trust in funzione parasuccessoria.

Sennonché, non essendo possibile in tal sede soffermarsi analiticamente su tali problematiche (che hanno, sia detto per inciso, tutti una soluzione positiva ai fini della piena compatibilità del trust con i principi fondamentali del nostro ordinamento), mi limiterò ad analizzare – peraltro, sinteticamente – via via che si proporranno, solo quelli attinenti alla materia successoria per i limitati profili che concernono i trusts a tutela dei deboli.

Ora per quel che concerne, innanzitutto, il primo profilo di presunta incompatibilità del trust rispetto al nostro ordinamento rappresentato dal tradizionale principio della tipicità e, quindi, del numerus clausus dei diritti reali, anche a voler prescindere dall’eclissi delle ragioni tradizionalmente poste a fondamento di tale dogma, ormai da più parti reputato del tutto obsoleto, è agevole  a tale rilievo replicare che il trust si colloca ai margini  del mondo del contratto per insediarsi a pieno titolo nel mondo della proprietà, ossia come fonte di una peculiare proprietà che ben potremmo definire “funzionale” (a cui non a caso nel diritto inglese si dà nome di trust property); nozione che sembra a buon diritto potersi sussumere nell’ampio genus della “proprietà nell’interesse altrui”, posto che la “curvatura” che il concetto di proprietà subisce in tale ipotesi deriva dal “disallineamento” tra titolarità del bene e destinatario delle sue utilità economiche. Disallineamento che a sua volta trae origine da una “causa fiduciae”, da intendersi, però, in tal caso, non nel senso di causa del negozio, bensì di causa dell’attribuzione che, peraltro, giustifica non l’acquisto della proprietà in capo al trustee, bensì, da un lato, le limitazioni poste ai suoi poteri di gestione e di disposizione e, dall’altro, le responsabilità sullo stesso gravanti.

Quanto all’ulteriore profilo di presunta incompatibilità del trust rispetto al nostro sistema giuridico, che deriverebbe dall’asserita astrattezza causale dell’atto traslativo dei beni destinati a formare oggetto del trust fund è anche in tal caso agevole replicare che la causa che regge l’attribuzione che si realizza attraverso il negozio dispositivo – in realtà di per sé “neutra” e non astratta – è rinvenibile nell’istituzione del trust, alla quale la stessa attribuzione è funzionale; trattasi, più precisamente, di una causa palesemente unitaria, individuabile nella sequenza “attribuzione/segregazione”, posto che tanto l’attribuzione al trustee, quanto la segregazione dei beni in trust rispetto al patrimonio del trustee appaiono egualmente indispensabile affinché si realizzi lo “scopo” del trust. Né varrebbe sostenere che l’inidoneità dello schema causale del negozio attributivo dei beni in trust deriverebbe dall’inammissibilità nel nostro ordinamento di negozi unilaterali atipici ad effetti traslativi. Basterebbe, infatti, a ciò replicare che da tempo autorevole dottrina, sottraendosi al dogma della limitazione delle vicende traslative tra i contrapposti poli dello scambio e della liberalità, ha dimostrato l’ammissibilità, in ossequio al combinato disposto di cui agli artt. 1322 e 1324 c.c., di negozi unilaterali atipici, anche traslativi, purché produttivi di vantaggi per i destinatari e salva, ovviamente, la facoltà per questi ultimi di rifiutare l’attribuzione. Ma ciò che è dirimente ai fini della soluzione di tale questione è la considerazione che l’attribuzione al trustee di beni destinati allo scopo individuato dal settlor è del tutto improduttiva di un arricchimento, in senso economico-patrimoniale, in suo favore, risolvendosi unicamente nell’investitura dello stesso nella titolarità di diritti funzionali al perseguimento dello scopo impresso. Sicché, sotto il profilo squisitamente causale, la sua partecipazione volitiva è funzionalmente necessaria, non già ai fini della produzione dell’effetto traslativo, bensì soltanto per l’assunzione delle obbligazioni inerenti al munus conferitogli.

Non resta a tal punto che misurarsi con l’ultima obiezione secondo cui il trust determinerebbe nel patrimonio sia del disponente che del trustee la creazione di un’entità separata, costituita dai beni conferiti in trust, che sarebbero in tal modo sottratti alla generica responsabilità prevista dal prima comma dell’art. 2740 c.c., con conseguente patente violazione della regola sancita dal secondo comma della medesima disposizione di legge, a mente della quale «le limitazioni di responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge».

Per avere conferma che l’effetto segretativo derivante dalla costituzione di beni in trust non vulnera affatto la regola enunciata dal richiamato art. 2740 c.c. è preliminarmente necessario individuare l’esatto ambito applicativo di tale disposto di legge, distinguendo tra atti che incidono direttamente sulla responsabilità, causandone una limitazione ed atti che, viceversa, incidono direttamente sul patrimonio e solo indirettamente sulla responsabilità. I primi sono negozi caratterizzati da una causa esclusivamente “separatoria”, i secondi si connotano, invece, per una “causa destinatoria non separatoria” giacché, al contrario dei primi, negli stessi la separazione patrimoniale e, conseguentemente, la limitazione di responsabilità, in quanto strumentale rispetto alla finalità della destinazione dei beni allo scopo, rappresenta un effetto meramente “secondario” od “indiretto”.

Ora non v’è dubbio che solo i negozi appartenenti alla prima categoria impingono nel divieto ex art. 2740 c.c. Così come è incontestabile che il trust – quale paradigmatico negozio di destinazione di beni allo scopo, la cui meritevolezza andrà, ovviamente, valutata in concreto ex art. 1322, 2 co., c.c. – vada sussunto nella seconda categoria, posto che l’interesse con lo stesso perseguito non è quello della legittimazione della responsabilità patrimoniale, bensì quello, desumibile dall’analisi dello scopo, in vista del cui conseguimento è impresso il vincolo di destinazione negoziale.

Senza dire che nel conflitto tra interesse a disporre – che nella nostra Carta fondamentale riveste rilievo primario ex artt. 2 e 41 – ed interesse al soddisfacimento della pretesa creditoria – meritevole in sé, ma non oggetto di protezione assoluta, pena la violazione del fondamentale principio di solidarietà – il nostro legislatore assegna prevalenza al primo; prova ne sia, che per l’eventuale lesione dell’interesse del creditore commina la sanzione dell’inefficacia relativa, prevedendo l’esperibilità dell’azione revocatoria ex artt. 2901 c.c. e 67 l.f., e non già quella della nullità.

Se le considerazioni sin qui svolte valgono a confutare la tesi dell’incompatibilità con il dettato di cui all’art. 2740 c.c. dell’effetto segregativo che la costituzione dei beni in trust sortisce relativamente al patrimonio del disponente, ancor più agevole risulta il superamento di tale opinione con riferimento alla situazione giuridica del trustee. È evidente, infatti, che rispetto a tale soggetto non ha alcun senso parlare di una “limitazione di responsabilità”, tenuto conto che i beni oggetto di trust non entrano mai a far parte del patrimonio di costui, essendo programmaticamente trasferiti affinché siano segretati ed affinché egli gestisca e ne disponga solo ai fini strumentali.

Bensì si spiega, quindi, perché, da un lato, rispetto a tali beni i creditori del trustee non abbiano alcun diritto a soddisfare (non diversamente da quanto, peraltro, accade nelle ipotesi contemplate agli art. 170 e 1707 c.c.) e dall’altro, perché, viceversa, sugli stessi i creditori del beneficiario dell’attribuzione siano legittimati esercitare, anche cautelativamente, i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale normativamente previsti.

2.3. Il trust a fini successori

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte in ordine all’ormai acquisito “inurbamento” del trust nel nostro sistema positivo, l’interprete è chiamato a verificare in concreto e, quindi, rispetto alle singole fattispecie, la meritevolezza degli interessi perseguiti attraverso il ricorso ad un trust in funzione parasuccessoria, per accertarne l’ammissibilità rispetto alle regole inderogabili del nostro ordinamento nazionale. 

Ora è noto che il nostro diritto delle successioni è, per così dire “innervato” da una pluralità di norme imperative. Basti pensare, per quel che attiene alle scelte “apicali” adottate dal nostro legislatore che più di altre suscitano, quantomeno di primo acchito, le maggiori perplessità in ordine alla compatibilità del trust con il sistema successorio italiano, al divieto dei patti successori, ai limiti previsti in materia di sostituzione e di usufrutto successivo, all’indisponibilità quantitativa – e talora anche qualitativa – della legittima ed ancora al divieto delle disposizioni testamentarie rimesse all’arbitro altrui.

In tale prospettiva occorre rammentare che la concreta operatività del trust deve fare i conti coi limiti invalicabili posti dall’art. 15 della Convenzione, che sancisce espressamente la piena applicabilità delle leggi nazionali in materia di testamenti e di devoluzione di beni ereditari, con particolare attenzione alla tutela dei legittimari, in caso di norme non derogabili «mediante una disposizione di volontà». Considerato, peraltro, il carattere meramente esemplificativo dell’elencazione contenuta nel predetto art. 15, nonché la stretta affinità tra le disposizioni dedotte in materia di successioni e quelle previste in tema di donazioni e tenuto, altresì, presente ciò che si dirà in ordine alla categoria dei trust irrevocabili con effetti post mortem, ognun vede come un ulteriore limite sia segnato dalle norme imperative vigenti in materia di donazioni. 

L’accennata indagine appare, peraltro, ancor più doverosa ove si consideri che il trust costituisce, senza alcun dubbio, il principale strumento di trasmissione intergenerazionale della ricchezza alternativo al testamento.

Ed invero, la sua superiorità competitiva rispetto al testamento ed ai correlati istituti del nostro diritto successorio è rappresentata dalla sua idoneità a realizzare finalità rispetto alle quali questi ultimi si rivelano, invece, del tutto inadeguati. Tra questa v’è – ma non solo – la pianificazione di interessi mutevoli nel tempo, perché correlati al momento dell’attribuzione rispetto a quello della predisposizione dell’atto, e ciò attraverso sia la previsione dell’eventuale modificabilità dei soggetti beneficiari, sia la diversificazione delle attribuzioni patrimoniali loro destinate, secondo modalità alternative rispetto alla mera ripartizione in quote dei beni ereditari quale prevista dal nostro diritto successorio. Modellando opportunamente i poteri attribuiti al trustee e/o al protector, oltre che riservandosi o meno, a secondo dei casi, il potere di nominare o revocare i beneficiari post mortem, sarà infatti possibile per il disponente realizzare adeguatamente tutte le più disparate finalità parasuccessorie, in vista delle quali privati sogliono far ricorso a congegni negoziali alternativi al testamento, in tal modo, non solo attuando un assetto patrimoniale post mortem razionale ed equo, ma altresì conseguendo l’ulteriore, determinante vantaggio di dar vita ad un patrimonio “segregato”.

In particolare, attraverso il proteiforme utilizzo dei trusts liberali, è possibile soddisfare tanto una finalità di mantenimento – che il disponente può aver interesse a perseguire anche al di fuori del proprio nucleo familiare, così superando gli angusti limiti che si frappongono nel nostro sistema alla c.d. “fondazione di famiglia – quanto una finalità di conservazione sia dell’unità del patrimonio familiare che della destinazione economica dei beni, come e meglio della c.d. “fondazione d’impresa”.

In vista del conseguimento di tali finalità, il disponente potrà, quindi, decidere, di volta in volta, non solo di anticipare in vita, in tutto o in parte, l’attribuzione di capitali e/o rendite in favore di quei beneficiari rispetto ai quali dovessero verificarsi determinate circostanze o che dovessero risultare in possesso di dati requisiti ma, altresì, mantenere l’unità del suo patrimonio per un lasso di tempo successivo alla propria scomparsa, prevedendo comunque la possibilità di far fronte ad eventuali sopravvenienze, modificando discrezionalmente sia i destinatari che tempi, modalità, natura ed entità delle attribuzioni, in base alle mutevoli e concrete esigenze ed alle accertate capacità, attitudini e bisogni di ciascuno dei beneficiari. 

In tutto, per di più, garantendo a questi ultimi, attraverso l’effetto segregativo, di fruire dei vantaggi del trust fund, ponendoli al riparo da eventuali rischi derivanti tanto da una malaccorta gestione e/o alienazione dei beni, quanto da eventuali dissesti finanziari. 

In definitiva, ognun vede come il trust si presti a fungere da duttile ed efficace strumento di estate planning, consentendo al disponente, direttamente o per il tramite del trustee e/o del protector, non solo di riservarsi in vita un giudizio sulla meritevolezza  delle persone prescelte quali  beneficiari, sulla destinazione finale dei beni, sull’idoneità del mezzo prescelto e sulla congruenza, utilità e persistente attualità di strumenti ed obiettivi ma, altresì, prolungando anche oltre la propria vita la possibilità di modificare ulteriormente l’assetto patrimoniale originariamente predisposto.

Ciò detto, occorre a tal punto avvertire che, benché negli ordinanti di common law molte delle su esposte finalità siano realizzabili anche attraverso trust istituti mortis causa e benché anche il trust testamentario solleciti l’attenzione del giurista continentale per la sua problematica compatibilità con gli istituti del nostro diritto successorio, la mia successiva analisi sarà circoscritta alla figura del trust liberale, istituto con atto inter vivos e con effetti post mortem e, come tale, destinato a trasmettere ai beneficiari il patrimonio del disponente solo dopo la morte dello stesso e ciò perché proprio questa fattispecie è quella che meglio di ogni altra si presta a fungere da strumento negoziale di trasmissione della ricchezza realmente alternativo al testamento. In tale ottica, l’indagine dovrà prendere separatamente in considerazione tale istituto in base al criterio della ricorrenza o no nella fattispecie concreta dell’ambulatorietà dell’istituzione del beneficiario ovvero, per dirla in termini più espliciti, distinguendo nell’ambito del genus del trust liberali con effetti post mortem due species: quelli revocabili e quelli irrevocabili. Ebbene, nella prima ipotesi, vertendosi in materia di “disposizioni testamentarie in forma indiretta” (ovvero, secondo un’ulteriore definizione, di “liberalità non donative in funzione parasuccessoria”) – giacché fattispecie idonea a produrre effetti sostanzialmente equiparabili a quelli realizzabili attraverso l’istituzione ereditaria – potrà invocarsi l’applicabilità, in via analogica, delle regole contemplate nella disciplina materiale dettata per il testamento e, più specificatamente, quelle relative al legato di specie.

In che significa innanzitutto che – in coerenza a quell’evoluzione sistematica che induce a svalutare i requisiti formali a favore della tutela affidata alle norme che attengono alla sostanza del rapporto – non potrà a buon diritto invocarsi la nullità del trust e la conseguente improduttività degli effetti scaturenti in quanto negozio posto in essere senza l’osservanza delle norme inderogabili prescritte in materia di forma testamentaria.

Approccio ermeneutico questo ampiamente condivisibile innanzitutto in inconsiderazione della circostanza che la finalità che la forma assolve nell’atto di ultima volontà appaiono in tal caso comunque soddisfatte dalla tipicità (se non legale quantomeno sociale) che ormai connota anche nel nostro ordinamento il negozio di trust ed, altresì, perché confermato anche dal lato positivo, giacché è noto che così come il contratto a favore di terzo da eseguirsi dopo la morte della stipulante non soggiace all’onere formale, sono del pari sottratte ai requisiti formali prescritti dall’art. 782 c.c. le donazioni indirette di cui all’art. 809 c.c.

Sempre in perfetta analogia alla disciplina prevista in materia di legato di specie, il trust sarà soggetto – ovviamente sempre ché ne sussistono i presupposti – sia a riduzione per lesione di legittima sia, se del caso, all’aggressione dei creditori del de cuius

Qualora, invece, si verta nell’ipotesi di trust liberali irrevocabili destinati a produrre effetti post mortem e, quindi, a realizzare una sorte di anticipazione sulla successione non ancora aperta del disponente, per identità di ratio e, quindi, sempre in via analogica e, – pertanto, nei limiti della compatibilità – sembra legittimo far ricorso alla disciplina dettata per le donazioni indirette (id est artt. 809, 1° co e 737 c.c.). Conseguentemente, sul piano pratico, ai fini della collazione, la data dell’atto di disposizione a cui far riferimento sarà quella in cui il disponente si sarà spogliato definitivamente della facoltà di disporre in modo difforme dei propri beni.

2.3.1. Trust e divieto ex art. 458 c.c.    

In conformità a quanto previsto dall’art. 15 lett. c) della Convenzione dell’Aja, corre a tal punto obbligo verificare la possibilità – come da taluni sostenuto – che il trust possa configurarsi come un patto successorio istitutivo, come tale vietato ex art. 458 c.c. in quanto posto in essere allo scopo di realizzare un’istituzione contrattuale di erede o di legatario.

In coerenza con la distinzione tracciata in precedenza, l’analisi sarà condotta distinguendo a seconda che si verta in materia di trust irrevocabile o revocabile.

Ebbene, per quanto concerne innanzitutto la prima ipotesi – ossia il caso in cui il disponente istituisce un trust irrevocabile con atto inter vivos, prevedendo che il trust cessi alla sua morte ed i beni oggetto dello stesso siano distribuiti tra i beneficiari che egli abbia a tal fine già determinato (fixed trust) o tra quelli che saranno scelti dal trustee nell’ambito della categoria o della lista individuata dallo stesso settlor (discretionary trust), ovvero ancora disponendo che egli goda dei frutti dei beni vita natural durante ed alla sua morte il trust fund ovvero il capitale sia attribuito a beneficiari già determinati (o comunque determinabili) – a ben vedere il trust si atteggia non diversamente da un contratto a favore di terzi irrevocabile da eseguirsi post mortem ovvero come una donazione cum moriar o si moriar e, pertanto, non impinge minimamente nel divieto ex art. 458 c.c.

Si badi che tale soluzione interpretativa volutamente trascura di far leva sull’argomento – pur da molti interpreti utilizzato – che nel caso di specie il trust non integra un “patto” – stante la mancanza di qualsivoglia “accordo” in senso tecnico non solo tra disponente e beneficiari ma anche tra settlor e trustee – tenuto conto che si condivide quell’indirizzo interpretativo che, facendo leva sull’art. 1324 c.c., ad onta della lettera della legge, assoggetta al divieto ex art. 458 c.c. anche gli atti unilaterali.

L’argomento dirimente per negare ogni possibilità di collisione con il divieto in parola è, infatti, rappresentato dalla circostanza che in tal caso l’attribuzione in favore del trustee integra, senz’ombra di dubbio, un atto inter vivos, posto che per effetto dello stesso il disponente perde – in tal caso definitivamente ed irrevocabilmente – ogni potere sul trust fund , con la conseguenza che sul suo patrimonio non si produce alcun effetto successivo alla sua morte. Ed anche laddove costui si sia, invece, riservato di ottenere dal trustee i frutti prodotti dai beni alla sua morte, non avrà luogo alcun trasferimento mortis causa, essendo quello alla rendita diritto di natura strettamente personale destinato, come tale, ad estinguersi irrimediabilmente con la morte del suo titolare.

Correlativamente, anche l’attribuzione integra un atto inter vivos, seppur post mortem, non solo perché dante causa della stessa è il trustee, che l’effettua in vita, ma altresì perché rispetto alla stessa la morte del disponente funge da mero fatto storico che condiziona l’efficacia della stessa attribuzione, in perfetta analogia a quanto si verifica nella fattispecie ex art. 1412 c.c.; sicché non ricorre alcuna attribuzione de residuo. È ciò induce a ritenere che non vi sia alcun conflitto neppure con il divieto ex art. 457 c.c. di disporre mortis causa dei propri beni con uno strumento diverso dal testamento, perché al momento della morte del disponente i beni oggetto del trust non fanno più parte del suo patrimonio (e non, quindi, rientrano nel suo asse ereditario), avendoli il settlor trasferiti con atto inter vivos al trustee.

Passando a trattare dell’affine ma diversa ipotesi di trust liberale revocabile con effetti post mortem, va innanzitutto osservato che nell’esperienza d’oltreoceano si fa ampiamente ricorso ad una fattispecie riconducibile a tale categoria rappresentata dai c.d. “living trust”, in cui il disponente non perde sostanzialmente la disponibilità dei beni oggetto di trust, figurando egli stesso tra i beneficiari del trust fund, e si riserva la facoltà di revocare e modificare liberamente, sino alla sua morte, la designazione dei beneficiari.

Una figura paradigmatica di tale categoria è rappresentata dal c.d. “Totten Trust” , dal nome del leading case in materia, ipotesi che ricorre allorché taluno deposita una somma di denaro in una banca, dando alla stessa istruzioni di intestare il deposito a proprio nome, quale trustee, e designando un terzo quale beneficiario di quanto risultante dal relativo libretto al momento della propria morte, riservandosi  comunque la facoltà di revocare o di modificare, eventualmente anche in sede testamentaria, il beneficiario originariamente individuato.

Ognun vede i vantaggi derivanti dal ricorso alla testé descritta figura negoziale: da un lato, trattandosi di un trust “statico”, il disponente realizza presso di sé l’effetto segregativo, ossia la separazione del trust fund dal proprio patrimonio personale, al contempo conservando vita natural durante la piena disponibilità delle somme depositate; dall’altro, ne dispone post mortem, sottraendosi agli oneri formali prescritti ad substantiam per il testamentary trust e, non da ultimo, evita i costi del probate, eludendo l’imposta sui trasferimenti in genere e sulle successioni in particolare.

Orbene, secondo taluni nella descritta fattispecie del “Totten Trust”, pur essendo la contemplazione del terzo attuale, la circostanza che il disponente si riservi la facoltà non solo di revocare (potere che, per analogia con il contratto a favore del terzo, gli sarebbe comunque consentito esercitare ex art. 1412 c.c.) ma, altresì, di modificare usque ad mortem la designazione del beneficiario, legittimerebbe la riconducibilità della fattispecie all’incriminata categoria dei c.d. “patti successori indiretti”, vietati ex art. 458 c.c., posto che, considerato che ogni effetto potrà prodursi solo con la morte del disponente, ciò integrerebbe in attribuzione mortis causa.

In realtà a ben riflettere, tale conclusione è incondivisibile.

È ciò non solo per le medesime ragioni già addotte in relazione alla categoria dei trusts liberali irrevocabili post mortem (ragioni che, lo si rammenta, attengono, oltre che all’eterogeneità strutturale ravvisabile il trust ed il patto successorio – facendo difetto nel primo un qualsivoglia accordo tra disponente e futuro beneficiario – alla circostanza che nel trust l’attribuzione proviene non già dal disponente bensì dal trustee ed, altresì, al fatto che, essendo nel trust l’atto dispositivo già perfezionato in vita dal disponente attraverso il trasferimento dei beni al trustee, la successiva attribuzione del trust fund ai beneficiari integra un tipico atto post mortem) ma – e soprattutto – perché in tale ipotesi la facoltà di revoca e designazione del beneficiario che il disponente conserva usque ad mortem, non solo garantisce appieno l’esigenza di integrale salvaguardia della libertà del disponente medesimo ma, allorché effettivamente esercitata con il testamento, fuga ogni eventuale residua perplessità che potrebbe nutrirsi circa la ricorrenza di un’attribuzione de residuo, posto che in tal caso lo strumento dell’attribuzione definitiva al beneficiario è rappresentato  da una disposizione testamentaria e, quindi, dal tipico atto mortis causa ammesso dal nostro ordinamento.

2.3.2. Trust e tutela dei legittimari. La costituzione in trust della legittima

Venendo a tal punto a trattare della tutela dei legittimari nei confronti del trust, benché pleonastico, stante l’inequivoco tenore del più volte citato art. 15, lett. c) della Convenzione, va subito detto che qualunque trust, sia inter vivos, sia mortis causa, che dovesse rivalersi eventualmente lesivo della quota di legittima, non dando luogo al alcuna nullità, né per contrarietà all’ordine pubblico né per frode alla legge, integra un negozio che, seppur pienamente valido ed efficace, nei cui confronti il legittimario leso – e, a fortiori, pretermesso – potrà avvalersi degli ordinari strumenti di tutela all’uopo apprestati dall’ordinamento e, quindi, innanzitutto chiedere ex artt. 533 ss. la devoluzione dell’eredità con la reintegrazione della quota riservatagli dalla legge, mediante riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni lesive dei suoi diritti ed, altresì, pretendere ex artt. 533 ss. il riconoscimento della sua qualità di erede e, conseguente, la restituzione di quanto indebitamente trattenuto dal trustee e/o dai beneficiari.

Ora, sul piano operativo, l’esercizio in concreto di tali mezzi di tutela presuppone la soluzione di molteplici questioni, tra cui, innanzitutto, l’individuazione del soggetto passivo dell’azione di riduzione ed, altresì, quella sia del soggetto che dell’oggetto degli obblighi di imputazione ex se e, correlativamente, di collazione.

Orbene, per quel che concerne la prima questione, va innanzitutto escluso che il legittimato passivo dell’azione di riduzione sia il trustee; e ciò per una pluralità di ragioni sia oggettive che soggettive.

Ed invero, sotto il primo profilo, non v’è dubbio che l’attribuzione al trustee di beni destinati allo scopo individuato dal disponente sia del tutto improduttivo di un qualunque arricchimento, in senso economico-patrimoniale, risolvendosi unicamente nell’investitura dello stesso nella titolarità di diritti funzionali al perseguimento dello scopo. Quanto al secondo aspetto, poi, è del pari innegabile che tale attribuzione sia per definizione priva di una qualsiasi connotazione liberale. Come ripetutamente chiarito, l’istituzione del trust ha sempre, quale sua giustificazione causale, un effetto attributivo-segregativo, ossia la creazione di un patrimonio separato destinato ed uno scopo, il cui perseguimento si proietta oltre la figura del trustee, concretizzandosi nell’interesse dei beneficiari o, in assenza di questi, in un fine specifico.

Il soggetto legittimato passivo dell’azione di riduzione non può, quindi, che esser il beneficiario finale ma – ovviamente – soltanto dal momento in cui, non solo costui sia concretamente individuato ma, altresì, l’attribuzione patrimoniale si sia definitivamente perfezionata. 

Strettamente correlata a quella testé illustrata è l’ulteriore questione concernente l’esatta individuazione sia del soggetto passivo che dell’oggetto, tanto dell’obbligo dell’imputazione ex se previsto dall’art. 564, 2° co., c.c., quanto dell’obbligo di collazione ex artt. 737 e ss. c.c.

Ebbene, sotto il primo profilo, in perfetta coerenza al criterio che abbiano adottato ai fini dell’identificazione del soggetto passivo dell’azione di riduzione, non sembra possa dubitarsi che, qualora il legittimario che agisce in riduzione lamentando una lesione della sua quota di riserva per effetto dell’attribuzione prevista da un trust istituito con atto sia inter vivos che mortis causa sia stato, al contempo designato tra i beneficiari del trust, sia soggetto,  a seconda dei casi, sia all’obbligo di imputazione ex se che a quello di collazione, essendo irrilevante che, sul piano formale, il trustee risulti il destinatario della disposizione.

Quanto, poi, all’oggetto dell’obbligo di collazione, plurime considerazioni inducono a ritenere che si debba a tal fine far riferimento non già al valore economico del bene al momento del relativo trasferimento dal settlor al trustee, bensì a quello della concreta attribuzione al beneficiario finale del trust. Trattasi di una conclusione che si impone non solo in analogia della regola giurisprudenziale applicata per le donazioni indirette – secondo cui l’oggetto delle liberalità riducibile è rappresentato dall’effettiva entità dell’arricchimento del beneficiario – ma e soprattutto in considerazione della natura meramente strumentale che connota la trust property e la conseguente dinamicità che la caratterizza. Il che impone di tener conto anche degli eventuali incrementi patrimoniali intervenuti per effetto dell’attività posta in essere dal trustee onde procedere alla liquidazione del trust fund.

L’ultima questione che può porsi in tema di compatibilità tra il trust e le norme imperative vigenti nel nostro ordinamento in materia successoria concerne l’ipotesi in cui il disponente designi il legittimario o quale beneficiario delle sole rendite dei beni costituiti in trust ovvero gli attribuisca beni capitali o una quota indivisa dell’asse, ma solo subordinatamente all’estinzione del trust. Detto in termini più espliciti il problema che si pone in tal caso concerne l’eventuale contrarietà di una fattispecie di tal genere rispetto alla norma imperativa contemplata all’art. 549 c.c., che vieta al testatore di imporre pesi e condizioni sulla quota spettante ai legittimari.

Ora è noto che in dottrina è assolutamente prevalente la tesi – certamente più aderente al dato normativo – secondo cui l’intangibilità vada intesa solo in senso quantitativo e non qualitativo, ossia che il legittimario non abbia diritto a conseguire la quota spettantegli in materia, essendo libero il testatore di stabilire i beni da attribuirgli come quota del suo asse. Ne deriva, come logico corollario, che in nessuna violazione al divieto comminato dall’art. 549 c.c. incorrerà il disponente ogni qualvolta abbia previsto che l’attribuzione definitiva in favore del legittimario abbia luogo secondo termini e modalità coincidenti con quelli previsti dall’art. 588 c.p.c., c.c. (institutio ex re certa) ovvero in conformità a quelli di cui agli art. 713, 2 ° e 3° co., 733 e 734 c.c. in materia di divisione ereditaria.

Per identità di ratio, la contrarietà al più volte citato divieto ex art. 549 c.c. dovrà egualmente escludersi allorché l’attribuzione al legittimario delle sole rendite del trust fund abbia luogo attraverso disposizioni del settlor sostanzialmente coincidenti con gli istituti della cautela sociniana (ossia del lascito eccedente la porzione disponibile) di cui all’art. 550 c.c. e del legato in sostituzione di legittima ex art. 551 c.c. In ambo tali ipotesi al legittimario sarebbe, infatti, rimessa la scelta se accettare l’attribuzione così come prevista dal settlor, ovvero rinunciarvi per conseguire la legittima.

2.3.3. Trust e sostituzione fedecommissaria. Il divieto di usufrutto successivo

L’utilizzabilità del trust come valida alternativa al testamento esige di fugare l’ulteriore sospetto secondo cui il ricorso ad un trust – indipendentemente se con atto mortis causa o inter vivos – possa prestarsi ad eludere i divieti di sostituzione fedecommissaria e di sostituzione nelle donazioni contemplati, rispettivamente, agli artt. 692 e 795 c.c.

Ed in effetti, almeno in prima approssimazione, non può negarsi una certa suggestione a siffatto timore, sol che si consideri che il trust consente di realizzare obiettivi di segregazione di un patrimonio e di successiva devoluzione dello stesso o soggetti terzi diversi dal primo beneficiario, che invece il nostro diritto ammette solo qualora sussistono i presupposti inderogabilmente prescritti dall’art. 692 c.c. per il fedecommesso assistenziale.

Si intende alludere più in particolare a quell’ipotesi in cui il settlor trasferisca ad un trustee determinati suoi beni, affidandogli il compito di destinare le relative rendite a distinti beneficiari ciascuno alla morte dell’altro e di attribuirne la proprietà all’ultimo nato del più longevo.

Sennonché, come ci si accinge a dimostrare, non esiste alcun rischio di un qualsivoglia frizione con l’istituto codicistico in esame per evidenti differenze strutturali e, soprattutto, funzionali ravvisabili tra le due fattispecie, posto che la ratio a fondamento del divieto ex art. 692 c.c. non può esser compromessa in alcun modo da un istituto, quale il trust, che non congela affatto la proprietà di determinati beni nell’indisponibilità di una data linea familiare.

Ed invero, dal punto di vista strutturale, innanzitutto giammai nel trust è ravvisabile la duplice istituzione con ordine successivo, prevista dal 692 c.c. come connotato essenziale del fedecommesso assistenziale (che, come è noto, postula due autonome vocazioni, la prima a favore dell’istituito con efficacia immediata alla morte del de cuius e la seconda a favore del sostituito, destinata a spiegare effetti solo alla morte del primo chiamato), posto che nel trust il beneficiario acquista inter vivos dal trustee e non già mortis causa dal settlor. In secondo luogo perché nel trust non v’è un ordine successivo, perché non esiste alcun soggetto, che sia neppur lontanamente, assimilabile all’istituito: non il trustee, perché a costui il diritto di proprietà è trasferito con atto inter vivos e non in forza di un’istituzione successoria; non i primi beneficiari, posto che gli stessi, quali meri destinatari della rendita, non acquistano la titolarità di alcun potere dominicale. Ma neppure la situazione giuridica di cui è titolare il beneficiario finale può dirsi coincidente con quella del sostituito posto che – per la dinamicità che connota il trust fund – egli non ha diritto a ricevere gli stessi beni a suo tempo trasferiti dal settlor al trustee, bensì soltanto il corrispondente valore economico derivante dal reimpiego del valore di quelli iniziali. 

Infine, per quel che attiene all’ultimo dato fisiognomico della sostituzione fedecommissaria (ossia l’obbligo per il sostituito di conservare per restituire), non v’è alcuna possibilità di assimilazione tra i due istituti. Mentre, infatti, nel fedecommesso l’istituito, quale titolare di una proprietà risolubile, ha sul bene poteri di godimento e di amministrazione (peraltro solo ordinaria) ma non di disposizione, di contro il trustee esercita tutti i poteri del titolare del diritto, compresi quelli di amministrare e – quantomeno di norma – di disporre liberamente dei beni, senza nondimeno poterne godere.

Relativamente, poi, al piano funzionale le differenze tra le due fattispecie son ancor più macroscopiche. Se è vero che la ratio che ha storicamente indotto il nostro legislatore a limitare drasticamente il ricorso al fedecommesso è quella di evitare l’immobilismo al quale, per effetto dello stesso, sono sottoposti i relativi beni, il ricorso al trust non è in alcun modo suscettibile di integrare detto rischio. A prescindere, infatti, dalla considerazione che, di norma, nel trust il trustee è investito del potere di alienare, comunque l’eventuale inalienabilità – oltre ad esser circoscritta negli ordinamenti di common law a rigorosi limiti temporali – è funzionale, non già all’esigenza di garantire una successione di posizioni dominicali, secondo l’ordine prestabilito dal disponente, bensì di realizzare l’unica effettiva attribuzione proprietaria, che è quella del beneficiario finale (ovvero il perseguimento dello scopo, qualora si verta in un’ipotesi di charitable trust).

Le considerazioni sin qui esposte in merito al rapporto tra trust e fedecommesso testamentario valgono, come è ovvio, anche relativamente alla simmetrica questione concernente il parallelo tra il trust inter vivos e la sostituzione fedecommissaria nelle donazioni, stante la coincidenza tra la disciplina delle donazioni e quella delle disposizioni testamentarie in materia di sostituzioni – sia ordinarie che fedecommissarie –  sancita dall’art. 795.

Da ultimo, non sembra possa condividersi neppure la preoccupazione di chi, scorgendo nell’ipotesi di designazione di beneficiari successivi delle rendite dei beni oggetto di trust un’elusione del divieto di usufrutto successivo ex art. 698 c.c., ritiene, in ossequio a tale norma, che l’efficacia della disposizione in questione sia limitata alla prima istituzione fiduciaria.

Per disattendere tale conclusione e, infatti, sufficiente considerare che, se la mens legis del divieto in questione riposa in una esigenza di tutela del nudo proprietario, analoga ratio, non può certo addursi per circoscrivere l’ambito applicativo di un trust di tal tipo, posto che per le ragioni più volte precedentemente evidenziate, in tale fattispecie non c’è alcun nudo proprietario da tutelare, essendo il trustee l’unico proprietario dei beni oggetto del trust fund.

3. Il trust a favore di “soggetti deboli”  

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte deve, quindi, convenirsi che sia il trust mortis causa che quello inter vivos si prestano ad essere utilizzati, non solo per il raggiungimento delle medesime finalità realizzabili con la sostituzione fedecommissaria assistenziale di cui agli artt. 692 e ss. c.c., ma anche per ampliare significativamente ed in modo perfettamente lecito i confini.

In tale prospettiva occorre rammentare che – così come rinovellata dal legislatore del 1975 – nel nostro ordinamento la sostituzione fedecommissaria si configura come un istituto preordinato alla tutela, nell’ambito della ben più ampia categoria dei c.d. “soggetti deboli” – esclusivamente di maggiorenni interdetti ovvero di minori che versino in stato di abituale infermità di mente, tale da far presumere che nell’’ultimo anno delle loro minore età interverrà pronuncia di interdizione ed, altresì, che siano al contempo legati al testatore da un vincolo familiare, dovendo l’istituito esser necessariamente un figlio, un discendente od il coniuge di costui. Va, poi, considerato che la sostituzione fedecommissaria opera esclusivamente nei confronti delle persone o degli enti che abbiano effettivamente cura dell’interdetto. Altresì, solo allorché si rispetti rigorosamente il modello prefissato nei primi quattro commi dell’art. 692 c.c. il fedecommesso può esser utilmente utilizzato posto che, a norma di quanto espressamente prescritto dall’art. 692, 5° co, c.c., «in ogn’altro caso la sostituzione è nulla».

Ebbene, non v’è dubbio che – come non a caso la prassi applicativa ormai eloquentemente attesta – il ricorso al trust consente di perseguire le medesime finalità esistenziali cui è attualmente preordinata l’unica sostituzione fedecommissaria ammessa nel nostro ordinamento – ossia individuare un soggetto idoneo a prendersi cura dell’incapace, utilizzando i beni all’uopo destinati ed, altresì, scegliere i beneficiari finali degli stessi alla morte dell’incapace – ma superando gli angusti limiti imposti dal rigido schema previsto dalla vigente disciplina codicistica.

Ed invero, il trust potrebbe trovare applicazione in ipotesi in cui la sostituzione fedecommissaria non potrebbe, invece, mai trovare impiego.

Tali, innanzitutto, i casi in cui l’istituito sia un soggetto disabile ma non interdetto (ad esempio perché non in condizione di grave ed abituale infermità mentale ma, comunque, portatore di handicap ovvero sottoposto ad amministrazione di sostegno e, ancora, a trattamento sanitario obbligatorio ovvero nei confronti del quale i familiari non intendano promuovere la relativa procedura).

Ebbene, in tal caso, soprattutto in vista di una propria premorienza, non solo i suoi genitori ma anche altri suoi familiari e, del pari, qualunque terzo soggetto a ciò interessato – non sussistendo, in tal caso, come nel fedecommesso, il limite derivante dalla necessaria sussistenza di un rapporto di coniugio o di discendenza – potrebbero trasferire ad un trustee o, comunque, segregare in qualità di trustee (nell’ipotesi di trust “autodichiarato”) tutto o in parte il proprio patrimonio (mobiliare e/o immobiliare), per far fronte ad ogni bisogno dell’incapace (e, quindi, garantire sia l’amministrazione dei beni, sia le cure, il mantenimento e l’assistenza della persona), con tutta una serie di significativi vantaggi rispetto al modello proposto dagli artt. 692 ss. c.c. Non essendo, infatti, nel trust – per quel che si è detto in precedenza – ravvisabile una duplice delazione successiva, i beni apparterebbero al trustee, il quale non potrebbe considerarsi erede ma soltanto un onerato dalla disposizione fiduciaria; né tale sarebbe il disabile, in quanto mero fruitore del reddito.

Non essendo, peraltro, il trustee, quale effettivo proprietario dei beni, gravato da alcun obbligo di conservazione, l’atto costitutivo del trust potrebbe demandargli ampi poteri gestori, tra cui anche la facoltà ad alienare, ogni qualvolta ciò si rendesse opportuno, per assicurare adeguate cure ed assistenza al disabile (mentre è noto che nel fedecommessa alienabilità dei beni da parte dell’istituito è espressamente subordinata alla ricorrenza dei presupposti ex art. 694); senza, quindi, che sia a tal fine necessario munirsi di alcuna autorizzazione giudiziale – seppur, eventualmente, sotto il controllo del guardiano – e con il solo obbligo di trasferire, allorché il trust avrà esaurito il suo scopo, gli eventuali beni residui ai beneficiari finali.

Senza dire che in tal caso il ricorso al trust garantirebbe la produzione di un effetto segregativo sui beni oggetto dello stesso di ben più ampia ed efficacie portata rispetto a quello derivante dal fedecommesso. Mentre, infatti, ai sensi dell’art. 695 c.c. i creditori personali dell’istituito possono agire esecutivamente sui frutti dei beni oggetto del fedecommesso e sulle eventuali utilità accessorie che non alternino il valore capitale degli stessi, di contro, anche nell’ipotesi di trust testamentario, i beni oggetto di trust sono inaggredibili tout court da parte sia dei creditori personali dei trustee, sia di quelli del settlor deceduto.

Agli evidenziati vantaggi si sommano, poi, quelli destinati dall’estrema duttilità e flessibilità che connota il trust, che consente, assai meglio dei nostri tradizionali istituti successori, di modificare l’assetto di interessi originariamente predisposto dal disponente in conformità agli eventuali mutamenti derivanti, tanto da circostanze sopravvenute, quanto dall’evoluzione della capacità, attitudini e bisogni dei beneficiari. Il che si potrebbe realizzare innanzitutto attraverso la previsione di una serie di trustee, onde evitare che la durata del trust dipenda dalla vita di un unico trustee ed, altresì, prevedendo, ove se ne ravvisi l’opportunità, una durata del trust diversa da quella  della vita del disabile; come, ad esempio, potrebbe accadere nel caso di un trust istituito in favore di un figlio tossicodipendente od alcolista – nella prospettiva di un suo pieno recupero psico-fisico – attraverso la previsione dell’estinzione dello stesso contestualmente alla comprovata riabilitazione del “soggetto debole”.

In analoga prospettiva al trustee potrebbe esser affidato il potere di individuare i beneficiari finali del trust tra coloro che più si siano distinti nei rapporti relazionali e di assistenza del beneficio. Il che consentirebbe il perseguimento anche di una funzione “incentivante” e “premiale” nei riguardi di chi prendesse in cura il disabile.

Ancora, potrebbero essere salvaguardate, per quanto possibile, le potenzialità di autodeterminazione dell’interessato nelle scelte che lo riguardano, imponendo al trustee di tener conto delle richieste ed aspirazioni dello stesso; magari prescrivendo nell’atto istitutivo o nella letter of wishes che le cure al disabile siano prestate attraverso un’assistenza domiciliare, anziché mediante il ricovero in istituti ospedalieri e, comunque, sempre cercando di rispettare, per quanto possibile, i desiderata dello stesso disabile.

3.1 Il trustprotettivo”: caratteristiche ed ambito di impiego

Da quanto sin qui esposto ognun vede, dunque, come il trust sia mezzo ideale di tutela di interessi esistenziali oltre che patrimoniali non solo di minori ma, più in generale, di soggetti che versino in situazioni di debolezza o disagio personale.

Prima di proseguire in tale analisi giova, peraltro, evidenziare che il termine «incapaci» va letto in un’accezione estremamente lata. In tale genus rientrano, infatti, non solo i minori di età, gli interdetti, gli inabilitati, i beneficiari dell’amministrazione di sostegno, ma chiunque si trovi, in un determinato momento, ovvero per l’intera durata della propria esistenza, privo anche solo parzialmente della capacità di intendere e volere ex art. 428 c.c. a causa di una menomazione patologica, anche solo transitoria. Tali ad esempio i soggetti che di cui all’art. 3, legge 5 febbraio 1992 – c.d. “Legge quadro per l’assistenza, integrazione sociale e diritti dei disabili” (ossia coloro che palesano una «minorazione fisica o psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione») e ciò anche, qualora non siano stati né interdetti, né inabilitati, né sottoposti alla misura dell’amministrazione di sostegno (basti solo pensare a tutti coloro che, in età avanzata, soffrono di disturbi neuro-cognitivi e relativamente ai quali i familiari non abbiano voluto far ricorso ad alcuna misura protettiva).

Si parla, quindi, di “trust protettivo” alludendo a tutte quelle fattispecie che si concretano nella destinazione di un complesso di beni e/o diritti e dei relativi redditi al soddisfacimento dei bisogni di un soggetto “debole” nella su richiamata accezione, cui si da vita mediante il trasferimento di beni e/o diritti dal disponente ad un trustee ovvero attraverso l’apposizione del vincolo segregativo da parte del disponente che si autodichiari trustee.

La flessibilità strutturale fa del trust strumento privilegiato di una “tutela promozionale”, non meramente “difensiva” dei soggetti “deboli”, pienamente coerente – come in prosieguo si avrà modo di illustrare – alla l. 9 gennaio 2004, n. 6, che ha introdotto la figura dell’amministrazione di sostegno. Il trust, infatti, consente di assecondare interessi del soggetto “debole” che vanno ben oltre a quello della tutela del patrimonio e degli interessi economici dello stesso e che attengono alla sua persona in senso “globale”, con precipuo riguardo, quindi, alla dimensione affettiva, emotiva, sociale e culturale dell’individuo. 

Il che è, altronde, coerente ad un significativo trend normativo. È noto, infatti, che la recente legislazione ha delineato un vero e proprio “statuto” del disabile e della sua famiglia, introducendo una pluralità di eterogenee misure di protezione. Rilevano in tal senso, tra le altre: la legge n. 482/1968 sulle assunzioni obbligatorie presso le amministrazioni pubbliche e le aziende private degli invalidi civili con possibilità di fruire per gli stessi di trattamento preferenziale in tema di permessi giornalieri e mensili; la legge n. 18/1980 sull’indennità di accompagnamento, con le successive leggi regionali orientate al sostegno del nucleo familiare del portatore di handicap; la legge n. 13/1989 sul superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche; la legge n. 4/1992 su assistenza, integrazione sociale e diritti delle persone portatrici di handicap; la legge quadro n. 328/2000 sulla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali per eliminare o ridurre il disagio individuale e familiare; il d.lgs. n. 151/2001 a sostegno della paternità e della maternità quale supporto principale per la tutela dei figli, anche maggiorenni, con handicap grave. 

Non può, poi, tacersi quale ulteriore vantaggio del trust “protettivo” quello di garantire la riservatezza sullo stato di minorazione e di evitare l’esposizione del beneficiario ai procedimenti di interdizione o inabilitazione, sentiti come “mortificanti”, o anche all’apertura dell’amministrazione di sostegno, essendo la stessa comunque governata dall’intervento dell’autorità giudiziaria. 

È inutile soffermarsi ulteriormente – essendo gli stessi palesi – sulla pluralità ed eterogeneità dei benefici derivanti per il soggetto “debole” dal ricorso a tale tipologia di trust, che consente di realizzare tanto finalità di mantenimento – che il disponente può aver interesse a perseguire al di là degli angusti limiti del proprio nucleo familiare – quanto finalità di conservazione sia dell’unità del patrimonio familiare che della destinazione economica dei beni.

La durata di questi trusts sarà evidentemente calibrata sul lasso temporale entro il quale, almeno prognosticamente, permarrà l’esigenza di protezione e salvaguardia. Se con riferimento ai minori la necessità in questione viene fisiologicamente meno nel momento stesso del conseguimento della maggiore età, con riguardo ai soggetti disabili il “trust protettivo” assolve al proprio ruolo di cura e garanzia tendenzialmente per tutta la vita dei soggetti interessati. Ed anzi, in relazione al decesso del soggetto “protetto”, ben possono esser previsti dall’atto istitutivo, beneficiari “finali” cui il trustee dovrà trasferire i beni al termine del trust. L’esempio paradigmatico è dato dall’ipotesi in cui il settlor reputi di destinare i beni in trust, dopo la morte del congiunto in favore di altri disabili non abbienti o di enti od istituzioni, sia pubbliche che private, di assistenza.

L’opportunità del ricorso al “trust di protezione“, è dunque, quella di fruire di uno strumento idoneo ad essere opportunamente “adattato” alle variegate e sempre diverse situazioni economico-familiari e personali che contraddistinguono il singolo caso di specie. In particolare, il trust si mostrerà pienamente congeniale alla tutela del figlio portatore di handicap, proprio in quanto idoneo a raggiungere le finalità per le quali è stato costituito, bypassando agevolmente le difficoltà suscettibili di determinarsi alla morte dei genitori del disabile: la cura di quest’ultimo sarà opportunamente “programmata” e garantita fino alla sua morte. Ed infatti, il trust potrà essere destinato a spiegare i propri effetti anche dopo la scomparsa dei familiari del disabile o, comunque, dei suoi familiari più prossimi. In particolare, il trust permetterà di “organizzare” al meglio, in funzione della salvaguardia della “persona”, il patrimonio di famiglia, articolandolo in guisa tale da garantire le aspettative di vita del disabile o le esigenze di crescita e maturazione del minore.

II “trust protettivo” potrebbe peraltro prestarsi ad esser utilizzato anche come strumento di tutela ‘”preventiva” del soggetto debole. Si pensi all’ipotesi di colui che, pur nella piena integrità psico-fisica, intenda cautelarsi in vista della futura insorgenza di una disabilità legata sia all’avanzare dell’età che ad un’eventuale sopravvenuta patologia. 

Orbene, in una fattispecie siffatta la figura del disponente e del beneficiario verrebbero a coincidere; potrebbero, altresì, esser fatti confluire nel patrimonio “fiduciario”, mano a mano, beni ulteriori; peraltro, quale titolare della trust property, il trustee non potrebbe trarne vantaggio, e ciò escluderebbe anche ogni problema di lesione della legittima. La descritta coincidenza non vale a travolgere i principi informatori del diritto dei trusts, tenendo conto che, anche in tale ipotesi ricorre un “affidamento” pieno dei beni da gestire da parte del trustee e considerata l’esclusione della possibilità di una qualsivoglia ingerenza del disponente nell’amministrazione dei beni, anche a causa della sua sopravvenuta incapacità di intendere e di volere. 

Nell’ipotesi in esame va rilevato come l’efficacia del trust potrà essere sospensivamente condizionata all’accertamento della perdita anche parziale della capacità di intendere e di volere. In tal caso, al trustee verrebbero trasferiti i beni senza limitazioni che non derivino dall’atto istitutivo del trust. Egli sarà, pertanto, titolare della capacità processuale attiva e passiva, in relazione ai beni attribuitigli e della facoltà di comparire dinanzi a notai o pubbliche autorità.

L’ulteriore quesito che è lecito a tal punto porsi è quello relativo all’ammissibilità di un trust autodichiarato in favore di un incapace, ossia se quest’ultimo possa quale settlor indicare sé stesso come beneficiario.

 Innanzitutto, è inutile dire che in tal caso la costituzione del trust dovrà esser necessariamente posta in essere dal rappresentante legale dell’incapace, previo rilascio delle necessarie autorizzazioni giudiziali ogni qualvolta lo richieda natura dei beni costituiti in trust fund.

Un’ulteriore puntualizzazione, per quanto pleonastica, merita a tal punto di esser fatta. Premesso che, come è noto, l’incapace non può effettuare donazioni, neppure indirette, ne discendono due logici corollari: il primo è che il beneficiario del trust istituito dall’incapace (o, per meglio dire, in suo nome e conto dal relativo rappresentante legale) non potrà che essere l’incapace medesimo (salvo quanto ci si accinge a dire sul punto); il secondo è che, alla cessazione programmata del trust, i beni oggetto del trust fund dovranno essere ritrasferiti dal trustee all’incapace o, nel più frequente caso in cui il trust consegua lo scopo per cui è stato istituito con la morte di quest’ultimo, agli eredi di costui. Si tratterà, come è ovvio, di eredi legittimi, salva la remota ipotesi in cui l’incapace sia legittimato a far testamento: è, come noto, il caso dell’inabilitato, il quale non soggiace al limite in cui all’art. 591 c.c.

Quest’ultimo corollario si pone, peraltro, in naturale coerenza con il principio generale del diritto dei trusts, secondo cui, nell’ipotesi in cui un trust abbia fine e l’atto istitutivo non indichi i soggetti ai quali i beni residui debbono essere attribuiti, questi devono rientrare nel patrimonio del disponente o, se egli è deceduto, essere attribuiti ai suoi eredi legittimi, sorgendo ex lege un cosiddetto resulting trust. 

Un attimo fa abbiamo escluso – quantomeno in linea di principio – che l’incapace possa istituire un trust designando quali beneficiari soggetti diversi da sé stesso. In realtà tale possibilità è circoscritta alle limitate ipotesi in cui l’ordinamento consente all’incapace di effettuare donazioni.

Giova a tal fine rammentare quanto all’ipotesi del disponente minore o minore emancipato, che l’art. 774, 1° co., c.c., prevede che il minore possa effettuare una donazione obnuziale ai sensi dell’art. 165 c.c. Ne deriva che il minore emancipato per susseguente matrimonio potrebbe istituire un trust liberale inter vivos designando beneficiari ulteriori rispetto a sé stesso in occasione del proprio matrimonio; ma anche detti beneficiari potranno essere soltanto o il suo coniuge e/o i figli nascituri dalla loro unione. È inutile dire che detta istituzione potrà avvenire con la mera assistenza dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale e senza necessità di preventiva autorizzazione giudiziale. 

Quanto al disponente inabilitato, è noto che costui può ex art. 777 c.c., in primo luogo, stipulare donazioni nel proprio contratto di matrimonio: per tale ipotesi vale, pertanto, quanto testé detto per il minore emancipato; in secondo luogo il medesimo, assistito dal curatore e senza necessità di autorizzazione giudiziale, può effettuare donazioni ai propri discendenti in occasione delle loro nozze. 

Quanto, poi, all’interdetto, l’unica eccezione al divieto di donare si ha in occasione delle nozze dei suoi discendenti, poiché l’art. 777, 2° co., c.c. consente in tal caso allo stesso (analogamente a quanto accade per l’inabilitato) di effettuare, legalmente rappresentato dal suo tutore e munito dell’autorizzazione giudiziale, donazioni in favore di costoro. 

Ne consegue, peraltro, che l’interdetto potrà istituire, un trust liberale inter vivos, designando beneficiari ulteriori rispetto a sé stesso soltanto in occasione delle nozze dei suoi discendenti e che detti beneficiari ulteriori potranno essere unicamente i discendenti dell’interdetto che contraggono le nozze cui la donazione si riferisce. 

3.2 Il c.d. «family trust»

Per quanto pleonastico, non v’è dubbio che il primo ambito entro i cui i soggetti “deboli” devono ricevere attenzione e cura, per affrontare nella maniera più proficua gli impedimenti legati alla propria condizione, è quello familiare. Dalla famiglia — e dai genitori in primo luogo — i soggetti de quibus acquisiscono quanto loro necessita non solo sotto il profilo rigidamente economico. 

Il principio “solidaristico” scolpito all’art. 30 della nostra Costituzione, che prescrive il dovere fondamentale dei genitori mantenere istruire ed educare i figli è, come noto, tradotto sul piano precettivo dagli artt. 147, 148 e 155 c.c.

Lo scopo cui il c.d. “family trust” quale sottospecie fondamentale del protective trust assolve è appunto quello di destinare tutto o parte del patrimonio familiare al soddisfacimento dei bisogni di vita del disabile.

Nel caso di soggetti affetti da grave disabilità di natura fisica o psichica, il momento maggiormente critico riguarda la scomparsa dell’ultimo genitore rimasto in vita, poiché ciò determina il venir meno della persona che generalmente si è occupata, in modo più o meno diretto, non solo degli aspetti patrimoniali ma anche di quelli più strettamente personali relativi alla quotidianità di vita del congiunto. 

In tale prospettiva il trust può giocare un ruolo importante, poiché consente di porre in essere un rapporto che va oltre la morte del disponente e oltre la morte del trustee. Ed invero, i genitori, quali disponenti, trasferiranno in tutto o in parte i beni, mobili e immobili, facenti parte del patrimonio familiare al trustee – da essi scelto tra le persone fisiche di loro gradimento o anche tra le associazioni di settore – che disporrà in via esclusiva di tali beni al fine di mantenere, curare e sostenere il disabile.

Sarà quindi solo il trustee che sarà chiamato ad amministrare i beni “segregati” anche prima della morte dei disponenti, gestendoli in piena autonomia, al riparo da interferenze del disponente, seppur vincolato alle precise obbligazioni “fiduciarie” e finalità “assistenziali” proprie dell’incarico conferitogli e, quindi, se del caso, anche alienandoli, laddove ciò si riveli utile o necessario al soddisfacimento dei bisogni del disabile. Profilo quest’ultimo particolarmente rilevante, tenuto conto della circostanza che i genitori, una volta divenuti anziani o malati, non sono più ovviamente in grado di fornire un contributo idoneo a garantire il benessere psico-fisico loro congiunto. 

Come si è già detto, vieppiù per i “family trusts” istituiti dai genitori del disabile può porsi almeno in astratto, una questione di rilievo, che riguarda gli altri figli, in quanto anch’essi eredi necessari e che concerne un’eventuale lesione della legittima agli stessi riservata.

Ma sotto questo profilo si è già evidenziato che qualunque trust, sia inter vivos che mortis causa, eventualmente lesivo della quota di legittima, non dando luogo ad alcuna nullità, né per contrarietà all’ordine pubblico, né per frode alla legge, integra, comunque, un atto pienamente valido ed efficace nei cui confronti il legittimatorio leso (e vieppiù pretermesso) potrà senz’altro avvalersi dei tradizionali strumenti di tutela all’uopo approntati dalla legge e, quindi, agire ex artt. 553 ss. c.c. chiedendo la riduzione delle disposizioni lesive della quota di riserva spettantegli per legge.

Corre a tal punto obbligo riferire che, secondo una prospettiva ermeneutica minoritaria, le prestazioni del trustee a favore di un disabile beneficiario di un “family trust” conserverebbero natura solutoria quand’anche si protrassero dopo la morte del genitore disponente. Si sostiene, infatti, un’interpretazione evolutiva degli artt. 433 e 434 c.c. in materia di alimenti che, alla luce degli artt. 2 e 30 della nostra Carta fondamentale, impedirebbe l’estinzione, con la morte del disponente, del suo obbligo, nei confronti del soggetto debole legato dal vincolo familiare. Ognun vede come il logico corollario dell’adesione a tale tesi – indubbiamente suggestiva – implicherebbe l’impossibilità di esperire non solo l’azione di riduzione da parte del legittimario leso, ma anche quella revocatoria, stante la previsione di cui all’art. 2901, 3° co., c.c., a mente del quale «non è soggetta a revoca l’adempimento di un debito scaduto».

Sennonché, pur non potendosi negare che tale opinione possa essere fonte di interessanti spunti di riflessione, nondimeno la stessa non sembra in alcun modo condivisibile sul piano del diritto positivo, non potendosi certamente negare la natura liberale della attribuzione che il trustee fosse eventualmente chiamato ad eseguire a favore del soggetto debole. Né, peraltro, a diverse conclusioni sembra possa approdarsi alla luce del combinato disposto normativo di cui agli artt. 742, 1° co., e 364, ult. co., c.c. che come è noto, dichiarano esenti da collazione e da riduzione la c.d. “spese di mantenimento” – giacché non v’è dubbio che gli esborsi a cui tali norme alludono son certamente soltanto quelle effettuate da de cuius durante la propria vita (in adempimento all’obbligo legale di mantenimento dei propri figli) e non già quelle, posteriori al suo decesso, effettuate dal trustee.

Sempre per riprendere, seppur sinteticamente, un tema già trattato, va osservato a tal punto che, con riferimento al “trust protettivo” è possibile che si verifichi la circostanza della costituzione in trust proprio della quota di legittima destinata al beneficiario incapace. 

Ora evidente che in tal caso l’intenzione del disponente è antitetica rispetto a quella di diseredare il legittimario “debole”, il quale anzi, proprio a fini di una sua salvaguardia, viene designato quale beneficiario delle rendite dei beni “segregati”. Al contempo è innegabile che, a seguito della costituzione del trust, al legittimario non spetteranno poteri di natura reale sui beni costituenti la propria quota di legittima, in quanto entrati a far parte del patrimonio “fiduciario”. Con l’ulteriore conseguenza che il beneficiario, sotto tale punto di vista, non potrà considerarsi erede, assumendo, piuttosto, la posizione sostanziale di un legatario delle rendite dei beni costituenti la quota di legittima. Di conseguenza almeno in linea di mero principio gli andrà riconosciuta la facoltà di esercitare l’azione di riduzione. 

E tuttavia, come già dato, devono reputarsi applicabili, nel caso che occupa, le regole sul legato in sostituzione di legittima. Sicché, ai sensi dell’art. 551 c.c., per il tramite del suo legale rappresentante, il beneficiario ben potrà optare per il conseguimento delle rendite, in quanto maggiormente confacenti alla propria condizione. Ai sensi di tale disposizione di legge è noto, infatti, che il legittimario può preferire il legato e rinunziare alla legittima.

3.3 Il trust “protettivo” e gli istituti codicistici di protezione. La superiorità competitiva del trust

I vantaggi competitivi del trust rispetto agli strumenti tradizionali che il nostro ordinamento appronta a tutela degli incapaci appaiono, dunque, già alla luce delle considerazioni sin qui svolte, manifesti ed incontestabili. 

Si pensi, in via esemplificativa, innanzitutto al fondo patrimoniale, in cui un primo limite, nel caso di figli portatori di handicap che sopravvivano ai genitori, è quello dello scioglimento del fondo alla morte dei genitori stessi, a meno che il figlio non sia minorenne, nel qual caso il termine di durata “slitta”, comunque, al conseguimento della maggiore età; ma un secondo limite, ancora più rilevante, nei confronti dei soggetti portatori di handicap, è dato dalla previsione, necessariamente generalizzata nel fondo patrimoniale, della sua costituzione a favore della famiglia “nucleare” nel suo complesso, con impossibilità di istituire il fondo per sopperire alle specifiche necessità di uno soltanto dei membri della famiglia.

Se poi, si passa alla disciplina delle successioni mortis causa e si pensa alla figura dell’esecutore testamentario, è evidente che il limite più pregnante di tale istituto sta nella durata dell’incarico che, ai sensi dell’art. 703 c.c., non può superare l’anno e, solo in casi particolari, i due. 

Quanto poi, agli istituti dell’interdizione, dell’inabilitazione e dell’amministrazione di sostegno, non può negarsi che in tutte tali fattispecie, l’intervento pressoché costante dell’Autorità Giudiziaria costituisca, da un lato, un’importante garanzia di tutela ma, dall’altro, anche un gravoso impaccio, giacché istituti sottoposti a meccanismi di controllo e di autorizzazione giudiziaria, che spesso non garantiscono l’effettiva realizzazione delle esigenze morali ed assistenziali del soggetto protetto e la tempestività della “risposta” da darsi alle sue concrete esigenze. 

Come già detto, invece, il trust può rivelarsi uno strumento assai più duttile ed idoneo al conseguimento degli scopi di tutela del soggetto debole. 

Su un piano pragmatico non può, infatti, innanzitutto obliterarsi la circostanza che nell’interdizione e dell’inabilitazione, viene offerta al Giudice una visione delle problematiche dell’incapace, inesorabilmente “mediata” dal tutore o curatore, facendo di norma a costoro difetto una conoscenza diretta e costante del soggetto “debole”.

Va, poi, evidenziato che al trust di protezione può farsi certamente ricorso a beneficio di soggetti relativamente ai quali, pur essendo nelle condizioni per essere interdetti o inabilitati, i parenti non intendano promuovere la relativa procedura. Sicché, il trust consente, entro certi limiti di mantenere “riservato” il disagio psicopatologico che l’instaurazione di un procedimento giudiziale di interdizione o inabilitazione inevitabilmente comporta per il disabile. 

La vantaggiosità del trust si coglie, poi, nella misura in cui si consideri la possibilità del trustee di meglio operare anche le scelte economiche relative al trust fund, sfruttando una più approfondita conoscenza dell’effettiva situazione del disabile e delle sue esigenze. In particolare, il sistema fondato sulla fiducia che i genitori-disponenti ripongono nel trustee che abbiano designato, consente a quest’ultimo di muoversi in piena autonomia, evitando gli ostacoli “burocratici” che, nel caso di un interdetto o di un inabilitato, rendono inevitabile la richiesta di autorizzazione al compimento di atti di straordinaria amministrazione presso il competente tribunale (ma su questo aspetto mi riservo di approfondire l’analisi nel prosieguo). 

Né può trascurarsi la possibilità di nominare trustee più soggetti onde garantire una gestione collegiale più ponderata; così come va considerato che nella quasi totalità dei trusts a favore di disabili, è presente la figura del protector, che potrà, in ipotesi di breach of trust del trustee, agire per il risarcimento del danno, agendo, sinanche per la rimozione e sostituzione del trustee infedele.

Quanto, poi, alle differenze strutturali intercorrenti tra un trust “protettivo” e gli istituti della tutela e della curatela, queste possano così riassumersi: 

1) il disponente del trust può disciplinare la successione nell’ufficio di trustee, indicando un o più sostituti dello stesso; 

2) il disponente può prevedere nell’atto istitutivo specifiche ipotesi di revoca dall’incarico di trustee;

3) al trustee può essere “affiancato” un guardiano; 

4) diversamente dal tutore e dal curatore che acquistano la proprietà dei beni in nome e per conto dell’incapace, nel trust il trasferimento ha luogo in capo al trustee, anche se – come si è più volte evidenziato – la trust property è una peculiare proprietà “funzionale” che, pur non dando luogo ad alcuna dissociazione tra titolarità e legittimazione, si connota per un “disallineamento” tra titolarità del bene e destinatario finale delle utilità economiche dello stesso ritraibili. Ed è altresì noto che proprio in quanto implicante un’attribuzione in favore del trustee meramente strumentale, in quanto preordinata altra ulteriore attribuzione avente carattere di definitività, nel trust la garanzia del perseguimento dello scopo si traduce, sul piano negoziale, in un effetto segregativo, nonché nell’imposizione di un vincolo di destinazione a rilevanza reale su beni strumentalmente attribuiti; il che fa sì che gli stessi non si confondano con quelli del patrimonio personale del trustee, siano esclusi dal suo asse ereditario e siano inaggredibili da parte dei suoi creditori; 

5) il tutore, invece, soggiace ai molteplici vincoli di amministrazione dei beni, dettati dagli artt. 374 e 375 c.c., stante la necessità di munirsi preventivamente delle necessarie autorizzazioni per il compimento di tutti gli atti di cui, peraltro, deve essere dimostrata l’evidente necessità o utilità; 

6) di contro, nel caso del trust, i genitori disponenti possono nell’atto istitutivo dettare preventivamente le regole per quanto riguarda la destinazione dei beni “segregati”; possibilità che, per tutte le su esposte ragioni, è irrimediabilmente preclusa ai genitori nell’ipotesi di interdizione o inabilitazione; 

7) infine, il trustee – quantomeno secondo un’opinione che mi riservo ad illustrare nel prosieguo – potrebbe ritenersi completamente esonerato dal regime autorizzatorio di cui agli artt. 374 e 375 c.c. 

Ma ciò che segna il maggior divario tra il nostro sistema codicistico ed il trust sta, soprattutto, nella circostanza che i tradizionali istituti di tutela del disabile si imperniano sulla dinamica “asfittica” dell’autorizzazione calibrata sul “singolo atto”, difettando di un momento “programmatico” della gestione del patrimonio e della salvaguardia della persona. 

In ogni caso, si noti bene: l’assenza del controllo “pubblicistico” non consente al trustee l’esercizio di un’attività gestoria arbitraria, sol che si tengano a mente i peculiari profili concernenti la natura della sua “discrezionalità”, lo “statuto” della sua responsabilità, la connotazione dei powers attribuitigli ed il controllo esercitato, di norma, sullo stesso dal protector.

Deve, comunque, essere precisato che la figura del protector non ha nulla a che vedere con il nostro protutore, in quanto il Guardiano svolge pur sempre una attività diretta e non mediata dal Giudice e ben può occuparsi di specifici compiti gestionali di carattere essenzialmente personale (ad esempio potrà essere assegnato al protector il compito di curare gli aspetti che attengono alla vita scolastica e ricreativa del beneficiario, scegliendo le strutture più adeguate a compensarne il deficit psico-fisico e le terapie più congrue a garantire il suo benessere complessivo). 

Anche nel caso in cui avessero già trovato applicazione gli istituti dell’interdizione o dell’inabilitazione, non v’è dubbio che la mera presenza di un tutore o di un curatore, non consentendo di risolvere tutti i complessi problemi concernenti il disabile, non esclude la possibilità che si proceda all’istituzione di un trust “protettivo”. 

In tal caso il tutore e/o il curatore avranno, ovviamente, un potere di controllo in ordine all’operato del trustee, nei cui confronti potranno agire qualora questi si rendesse inadempiente rispetto allo scopo del trust.

Sempre nell’ipotesi in cui siano già state pronunciate l’interdizione o l’inabilitazione del soggetto “debole”, è, anzi, opportuno, che il tutore o il curatore rivestano anche le funzioni di Guardiano del trust “protettivo” al fine precipuo di controllare le scelte e l’operato del trustee ed eventualmente di rimuoverlo dall’ufficio e di sostituirlo. 

L’analisi comparativa tra trust ed i tradizionali istituti di tutela dell’incapace approntati dal Codice Civile del 1942 impone, da ultimo, di prendere in esame un istituto che nondimeno ha conosciuto una modestissima applicazione nella prassi. Si intende alludere all’art. 356 c.c., ai sensi del quale «chi fa una donazione o dispone con testamento a favore di un minore, anche se questi è soggetto alla patria potestà, può nominargli un curatore speciale per l’amministrazione dei beni donati o lasciati».

In buona sostanza, il disponente può privare i genitori esercenti la responsabilità genitoriale sul minore dei normali poteri di amministrazione sui beni di quest’ultimo e può, specularmente, spingersi ad attribuire al curatore speciale del minore poteri di amplissima, latitudine potendo, secondo quanto desumibile dal secondo comma del ridetto disposto di legge, esonerarlo dal richiedere le autorizzazioni prescritte dagli artt. 374 e 375 c.c. per quanto concerne il compimento di atti di straordinaria amministrazione. 

Sta di fatto che ad una più approfondita analisi tale istituto codicistico si mostra assai meno “performante” del trust, almeno sotto tre distinti profili. 

Innanzitutto, deve considerarsi che il potere del curatore speciale è limitato dal punto di vista temporale, rimanendo circoscritto al periodo della minore età del donatario. Nell’ambito del trust, invece, la durata è scandita dalle previsioni dell’atto istitutivo, quindi stabilita dal disponente sulla base delle esigenze da fronteggiare, nei limiti della durata massima consentita dalla legge.

In secondo luogo, va tenuto presente che, sempre ai sensi di quanto disposto dall’art. 356 c.c., non v’è la possibilità per il donante di impartire direttive e prescrizioni al curatore prescelto. Diversamente, nel trust, le direttive di gestione sono sovente parte integrante o collaterale dell’atto costitutivo (attraverso le c.d. letter of wishes).

Infine, giova rilevare che la morte del beneficiato, nel contesto della curatela speciale ex art. 356 c.c., implica, inevitabilmente, l’apertura della successione del minore. Di contro, nel trust, l’atto costitutivo può, ben prevedere beneficiari “finali” coincidenti con persone diverse dai successori del beneficiario iniziale. 

3.4 Il problema del regime autorizzatorio degli atti di straordinaria amministrazione

Uno dei problemi di maggior rilievo relativamente ai trusts protettivi istituiti a beneficio di soggetti “deboli” al quale – come anticipavo – occorre dare risposta è quello della necessità o meno per il trustee, nell’ipotesi in cui il beneficiario del trust sia un soggetto incapace prima di compiere un atto di straordinaria amministrazione avente ad oggetto beni facenti parte del trust fund, di munirsi delle autorizzazioni richieste dagli artt. 320 ss., 374 ss. c.c. e 747 c.p.c.

Ebbene, già immediatamente dopo l’entrata in vigore della legge di ratifica n. 364/1989, parte della dottrina, traendo argomento dall’art. 15 dalla Convenzione, ha affermato la necessaria soggezione degli atti di disposizione sui beni costituiti in trust alla disciplina contemplata dagli artt. 374 e 375 c.c., tenuto conto che la richiamata disposizione fa espressamente salva l’applicazione in materia di trust delle norme interne sulla protezione dei minori e, più in generale, degli incapaci.

Sennonché, altra parte della dottrina ha osservato che nel nostro ordinamento esistano plurime disposizioni di legge che, per l’ipotesi di liberalità, dirette o indirette, a beneficio dell’incapace, esonerano il soggetto che amministra il bene nel suo interesse, sia egli o meno proprietario del bene amministrato, dal richiedere l’autorizzazione giudiziale. 

Al riguardo, viene in evidenza, innanzitutto, la disciplina del fondo patrimoniale di cui agli artt. 167 e s. c.c. È noto, infatti, che il fondo patrimoniale può essere costituito da un terzo, da entrambi i genitori, ovvero da uno di essi, sia con atto inter vivos che per testamento. Orbene, se da un lato appare pacifica la qualificazione di atto a titolo gratuito del negozio mortis causa, per quanto concerne, dall’altro, l’ipotesi in cui l’atto costitutivo sia stipulato inter vivos prevale in dottrina l’opinione secondo cui lo stesso realizzi una liberalità, in tal caso, indiretta.

Ciò detto, è noto che l’art. 169 c.c. nell’escludere che possano compiersi atti di straordinaria amministrazione del fondo patrimoniale senza il consenso di entrambi i coniugi e, in presenza di minori, senza l’autorizzazione giudiziale, fa salva nondimeno un’espressa, diversa disposizione dell’atto istitutivo. 

Accanto al citato art. 169 c.c. viene, poi, in rilievo la già menzionata norma prevista all’art. 356 c.c., in forza della quale è possibile donare o lasciare per testamento dei beni ad un minore o ad un interdetto, con la previsione che gli stessi siano amministrati, non dai legali rappresentanti di costoro (i genitori o il tutore), ma da un curatore speciale appositamente nominato dal disponente. Lo stesso artt. 356 c.c., al secondo comma, prevede altresì che il disponente possa includere nel suo atto di liberalità una clausola che esonera il curatore speciale dal richiedere le autorizzazioni previste, per il compimento di atti di straordinaria amministrazione, dagli artt. 374 e 375 c.c. 

Le uniche due ipotesi in cui detta clausola non può essere inserita nell’atto di liberalità attengono, per un verso al caso di beni attribuiti all’incapace per testamento ed a titolo di eredità, poiché in siffatta ipotesi non potrà prescindersi (almeno per tutto il tempo in cui persista la “qualifica ereditaria” dei beni, ossia la loro soggezione alle pretese di creditori e legatari del defunto), dalle autorizzazioni previste dall’art. 747 c.c., che costituiscono norme poste a tutela, oltre che dell’incapace, anche e soprattutto dei terzi aventi diritti sull’eredità, cioè dei creditori e legatari; per altro verso, nel caso in cui il bene attribuito per donazione o testamento all’incapace abbia natura di impresa commerciale, stante la delicatezza delle decisioni da adottarsi ln rapporto al possibile rischio di impresa, che impone il ricorso all’autorizzazione di cui all’art. 371, 1° co., n. 3 e 2° co., c.c., per la continuazione, l’alienazione e l’affitto dell’azienda. 

Ciò detto, traendo argomento dal principio della derogabilità del regime autorizzativo previsto dai citati artt. 169 e 356 c.c., per identità di ratio, sembra possa ritenersi in via analogica la validità della clausola inserita nell’atto istitutivo del trust costituito a beneficio di un incapace, con la quale si esonera il trustee dalla richiesta di autorizzazioni giudiziali previste per il compimento di atti di straordinaria amministrazione sui beni del trust medesimo. 

A conforto di tale conclusione milita, peraltro, la lettura del secondo paragrafo dell’art. 15 della Convenzione che, nel prevedere che «qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di realizzare gli obiettivi del trust con altri mezzi giuridici», sembra suggerire all’interprete un ragionevole temperamento delle conseguenze negative di un’applicazione eccessivamente intransigente del regime autorizzatorio.  

A ben vedere la problematica del compimento degli atti di straordinaria amministrazione dei beni in trust, sembra prestarsi ad una soluzione ancor più radicale, che consiste nel ritenere che, anche in difetto dell’inserimento nell’atto costitutivo del trust di una siffatta clausola possa, comunque, prescindersi dalla necessità di ricorrere al regime autorizzativo giudiziale ordinariamente prescritto per il valido compimento di atti di straordinaria amministrazione nell’interesse dell’incapace. 

Gli argomenti che depongono a conforto di tale soluzione interpretativa possono così sintetizzarsi: 

1) innanzitutto milita a favore di tale opzione ermeneutica, il dettato del secondo paragrafo dell’art. 15 della Convenzione, che esprime un indubbio favor nei confronti del trust, imponendo al Giudice di attuare «al meglio» gli scopi di tale istituto; 

2) in secondo luogo va tenuto conto che, benché al trustee faccia capo una peculiare posizione dominicale nell’interesse altrui, nondimeno giammai lo stesso potrebbe essere considerato alla stregua di un legale rappresentante del beneficiario incapace; 

3) va, poi, tenuto presente la circostanza che l’art. 8, secondo paragrafo, lett. d), della Convenzione de L’Aja affida alla legge regolatrice del trust il compito di disciplinare «i poteri del trustee di amministrare o disporre dei beni del trust, di darli in garanzia e di acquisire nuovi beni», cioè i poteri sia di ordinaria che di straordinaria amministrazione del trustee ed è noto che negli ordinamenti di common law il trustee non è soggetto ad alcun preventivo controllo giudiziario nell’esercizio dei poteri attribuitigli.

Sennonché, a tal punto non ci si può esimere dall’osservare che, senza dubitare della valenza precettiva del più volte citato disposto normativo di cui all’art. 15, paragrafo primo, lettera a), della Convenzione, sussiste nondimeno l’esigenza di scindere concettualmente la straordinaria amministrazione dei beni del trust fund da parte del trustee dall’amministrazione straordinaria dei diritti del beneficiario, aventi fonte nel trust, da parte del suo legale rappresentante. 

Ora, mentre, la prima attività può reputarsi esente da autorizzazioni, di contro la seconda appare senza dubbio di competenza del rappresentante legale del beneficiario incapace, il quale dovrà porla in essere solo munendosi preventivamente delle autorizzazioni di volontaria giurisdizione previste dalla legge. Il che significa che tali autorizzazioni potrebbero e dovrebbero esser richieste, a seconda dei casi, dai genitori, dal tutore ovvero dal curatore del beneficiario incapace.

La premessa distinzione appare necessaria in quanto – come più volte evidenziato – il trust determina un duplice effetto giuridico: da un lato, infatti, esso attribuisce al trustee una proprietà sui beni che è affetta da un vincolo di destinazione; dall’altro, lo stesso — quanto meno ove si configuri come fixed trust — attribuisce al beneficiario, nel cui interesse il vincolo di destinazione sia posto, il diritto, immediatamente esistente (anche qualora la relativa prestazione sia in ipotesi, al momento, inesigibile) di ricevere, sotto forma di frutti e beni capitali, attribuzioni patrimoniali provenienti dal trust fund

Ad opposta conclusione dovrebbe pervenirsi in relazione alle diverse ipotesi di trust “autodichiarati”, ossia ai trusts istituiti dall’incapace a beneficio di sé stesso. In tal caso, infatti, il trustee gestisce temporaneamente beni destinati a rientrare nel patrimonio dell’incapace medesimo; sicché appare più appropriato ritenere che sia costui a dover chiedere l’autorizzazione giudiziale per il compimento di atti di straordinaria amministrazione aventi ad oggetto i beni medesimi. 

3.5 Il trust nella nuova legge sul “dopo di noi” (l. 22 giugno 2016, n. 112)

Un’ulteriore, probante conferma della piena idoneità del trust quale istituto di protezione di “soggetti deboli” è stata, come è noto, rappresentata dall’entrata in vigore della l. n. 112 del 23 giugno 2016 – comunemente nota quale legge sul “dopo di noi” (anche se connotata da un ambito applicativo relativo alla disciplina di alcuni aspetti del “durante di noi”), emanata al dichiarato fine di favorire il benessere, la piena inclusione sociale e l’autonomia delle persone affette da “grave disabilità”, prive di sostegno familiare, in quanto mancanti di entrambi i genitori o perché gli stessi non siano in grado di fornire l’adeguato sostegno genitoriale ovvero in vista del venir meno di tale sostegno.

Tutto ciò in attuazione dei principi sanciti dagli artt. 2, 3, 30, 32 e 38 della Costituzione, nonché dagli artt. 24 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dagli artt. 3 e 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (sottoscritta a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata in Italia col n. 18/2009).

Per quanto attiene all’ambito soggettivo, i destinatari della normativa in questione, ai sensi dell’art. 1, 2° co., sono i “disabili gravi”, come definiti dall’art. 3, 3° co., l. 5 febbraio 1992, n. 104 (id est “legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”) e cioè coloro la cui «minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione». In tale categoria non rientrano, per espressa previsione normativa gli anziani non autosufficienti, la cui disabilità sia cioè «determinata dal naturale invecchiamento o da patologie connesse alla senilità» (e ciò perché l’intento del legislatore è stato quello di fornire una risposta alle pressanti richieste provenienti dalle associazioni di famiglie di disabili, soprattutto intellettivi, preoccupate per la sorte dei propri figli al momento della loro scomparsa); ma ciò non esclude per tali soggetti il ricorso agli strumenti di tutela previsti dalla legge, ma esclusa in tal caso la fruibilità delle agevolazioni e delle esenzioni fiscali.

In ordine agli istituti per il sostegno del “dopo di noi” la legge prevede forme di intervento sia pubblico che privato.

Trascurando per ovvie ragioni gli strumenti pubblici (predisposti onde favorire percorsi di “deistituzionalizzazione” – ossia per evitare il ricovero nei consueti istituti – ed impedirne l’isolamento, attraverso l’istituzione di un apposito fondo di assistenza), per quel che concerne quelli privatistici, la legge contempla espressamente i seguenti istituti (i soli a poter beneficiare del meccanismo di defiscalizzazione che ne rendono meno onerosa la praticabilità): a) la liberalità in denaro o in natura; b) la stipula di polizze di assicurazione; c) la costituzione di trust; c) la costituzione di vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c.; e) la costituzione di fondi speciali – composti da beni sottoposti o vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario – anche a favore di onlus che operino prevalentemente nel settore della beneficenza. 

Il trust, il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. ed il fondo speciale, al di là delle peculiarità giuridiche che connotano ciascun istituto, condividono una disciplina comune, posto che l’art. 6, senza operare alcuna distinzione tra le tre suddette fattispecie, individua le condizioni tassative che debbono esser rispettate per beneficiare dell’esenzione delle imposte sulle successioni e donazioni e delle esenzioni ed agevolazioni fiscali sui relativi atti di gestione. Tali condizioni sono le seguenti: a) innanzitutto l’adozione quale forma ad substantiam dell’atto pubblico: b) l’identificazione in maniera chiara ed univoca dei soggetti coinvolti e i rispettivi ruoli; la descrizione dei bisogni specifici del disabile e delle attività assistenziali necessarie a garantire le cure e la soddisfazione dei bisogni del medesimo, anche per ridurre il rischio del relativo ricovero in istituti; c) l’individuazione degli obblighi del trustee, del fiduciario e del gestore in relazione al progetto di vita ed agli obbiettivi di benessere del disabile da perseguire, unitamente agli obblighi ed alle modalità di rendicontazione; d) l’individuazione delle persone del disabile beneficiario degli istituti in questione; e) i beni da conferire affetti dal vincolo di destinazione ai fini della relazione della realizzazione della finalità assistenziali; f) l’individuazione del soggetto preposto al controllo dell’adempimento degli obblighi previsti nell’atto istitutivo (e, quindi, nel caso del trust, il “guardiano”); g) la durata; h) la destinazione del patrimonio residuo.

Ciò detto, già di primo acchito si possono agevolmente individuare i vantaggi competitivi che la scelta del trust implica rispetto a quella degli altri due istituti normativamente previsti.

Ed invero, per quel che concerne, innanzitutto il ricorso al negozio di destinazione ex art. 2645-ter c.c., mentre oggetto del trust, può esser qualsiasi bene di qualunque natura, di contro il negozio di destinazione può riguardare esclusivamente immobili o beni immobili iscritti in pubblici registri. Altresì, mentre il trust può esser incrementato con successivi apporti, tale possibilità è, invece, esclusa per il negozio di destinazione. Anche sotto il profilo della durata va rammentato che per l’istituto ex art. 2645-ter c.c. è prescritto un limite di durata massima di 90 anni o, alternativamente la durata della vita della persona fisica beneficiaria del vincolo; limite che, per quel che si è  detto, non ricorre per il trust.

Ma il profilo che più di ogni altro fa propendere per la scelta del trust è quello relativo al sindacato di meritevolezza che, mentre per il trust può dirsi risolto attraverso l’intervenuta ratifica della Convenzione dell’Aja, che ha segnato il positivo superamento della verifica di compatibilità di tale istituto con il nostro ordine pubblico interno, riconoscendo – come si è visto – pieno diritto di cittadinanza ex art. 1322 c.c. anche al c.d. “trust interno”, di contro per i negozi di destinazione patrimoniale costituisce oggetto di un non ancora sopita querelle e sembra in tal senso prevalente l’opinione che impone una valutazione del contenuto organizzativo dell’atto onde verificare se lo stesso sia connotato da un sistema di valutazione del patrimonio idoneo a garantire l’attuazione della destinazione e la tutela della medesima da parte del beneficiario.

3.6 I rapporti fra i trusts “protettivi” e l’amministrazione dl sostegno 

Nel giungere all’epilogo della nostra analisi sul trust di protezione a tutela di soggetti deboli, non si può trascurare di far cenno all’amministrazione di sostegno posto che, per quel che si accinge a dire, il connubio tra tali istituti può costituire una soluzione ottimale onde garantire un’idonea tutela ai soggetti colpiti da disabilità. 

Il trust, quale tipico negozio privatistico e l’amministrazione di sostegno, quale nuova misura legale di protezione, sono infatti caratterizzati da un aspetto comune fondamentale: la duttilità, che consente loro di modellarsi in modo adeguato ed efficace alle mutevoli necessità della situazione concreta nel suo evolversi nel tempo, garantendo contemporaneamente la cura tanto della persona quanto del patrimonio.

L’introduzione della legge 9 gennaio 2004, n. 6 sull’amministrazione di sostegno ha indubbiamente avviato un processo di profonda evoluzione delle misure di protezione degli incapaci, volto a sganciare il sistema dal binomio tradizionale interdizione-inabilitazione, sino a renderlo residuale. Non è un caso che l’art. 1 della legge introduttiva esprima un chiaro principio generale: quello di «tutelare con la minore limitazione possibile della capacità d’agire le persone prive, in tutto o in parte, dell’autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». 

II nuovo istituto codicistico segue una logica del tutto divergente da quella delle misure “tradizionali” dell’interdizione e dell’inabilitazione. Esso è indirizzato a “calibrare” sulla singola persona un ausilio protettivo, caratterizzato da ampia elasticità e versatilità, scongiurando tendenzialmente che la capacità di agire dell’interessato venga intaccata da una pronuncia ablatoria. 

Le prime applicazioni dopo la riforma del titolo XII del libro I del codice civile confermano le potenzialità del nuovo istituto di configurarsi come una misura a largo spettro di applicazione (sia per quanto riguarda la categoria dei potenziali beneficiari, che le circostanze nelle quali l’intervento di sostegno o assistenza è in concreto attivabile), connotata dall’adattabilità alle specifiche esigenze protettive del beneficiario. 

Una peculiare adattabilità che è evincibile anche dalla semplicità delle procedure che conducono, tanto all’adozione del decreto di nomina, quanto alla modifica dei suoi contenuti (in base alle circostanze sopravvenute nella condizione “personale” del beneficiario). Il rito segue, infatti, le forme “camerali”. 

La costituzione di un trust avente ad oggetto il patrimonio di un soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno è, pertanto, ormai pienamente ammissibile, avendo trovato anche sul piano del diritto positivo puntuale conferma, quanto alla producibilità dei suoi effetti, nella recente disposizione dell’art. 2645-ter c.c., che espressamente prevede la trascrizione degli atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela per soggetti disabili. 

Il trust, pertanto, ben può essere scelto dall’amministratore di sostegno e condiviso dal beneficiario, proprio al fine di garantire e assicurare a quest’ultimo che il suo patrimonio sia destinato a suo esclusivo beneficio, nell’ottica del soddisfacimento delle sue esigenze di vita, aspirazioni, legittime istanze, per tutta la durata della sua vita.

Il vincolo impresso sui beni mediante il trust può costituire il modo “migliore” per perseguire gli interessi dell’disabile. Giova al riguardo osservare che l’amministratore di sostegno è chiamato, nello svolgimento dei suoi compiti, ex art. 410 c.c. a «tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario». 

Va, peraltro, evidenziato che, sempre in forza di quest’ultima norma, nell’ipotesi di contrasto tra amministratore e beneficiario, la decisione finale sull’istituzione del “trust protettivo” in favore dell’amministrato spetta immancabilmente al Giudice tutelare, al quale, altresì, compete, stante il richiamo all’art. 374 c.c. operato dall’art. 411 c.c., autorizzare il trustee al compimento di tutti gli atti di straordinaria amministrazione aventi ad oggetto i beni costituenti il trust fund

Dal che si evince che il trust si connota come uno strumento che, per un verso, rafforza le autonomie del beneficiario (in conformità alla ratio della nuova misura) e, per l’altro, la qualità delle sue “garanzie”. 

Stanti le caratteristiche del nuovo istituto di cui agli artt. 404 ss. c.c., per valutare la validità della costituzione del trust si tratterà di verificare, di volta in volta, la reale ampiezza e la natura specifica dei poteri conferiti all’amministratore di sostegno. 

Occorrerà, infatti, guardare al decreto di nomina (nonché ai successivi interventi di modifica o integrazione del medesimo adottati dal Giudice tutelare) al fine accertare se un atto quale la costituzione di un trust sia suscettibile o meno d’essere posto in essere dal solo beneficiario, ovvero rientri nell’ambito dei poteri, di carattere “suppletivo-sostitutivo” o assistenziale, dell’amministratore di sostegno. 

Analoghe sono naturalmente le questioni prospettate dai negozi di dotazione patrimoniale, successivi alla costituzione del trust. Anche in questo caso occorrerà verificare quale “regime” il decreto di nomina abbia previsto per il compimento dell’atto: se — esemplificativamente — lo stesso esiga il previo o concorrente assenso dell’amministratore di sostegno, il suo nullaosta, la richiesta di parere al Giudice tutelare, l’autorizzazione di quest’ultimo. 

In buona sostanza, nessun problema di capacità si dovrebbe porre per colui che sia stato sottoposto ad un’amministrazione di sostegno che non l’ha in alcun modo privato della capacità d’agire: è il caso di colui che sia stato sottoposto alla mera “rappresentanza concorrente” dell’amministratore. In tale ipotesi, pertanto, il soggetto in questione potrà finanche liberamente istituire un trust “liberale” designando beneficiari ulteriori rispetto a sé stesso, trattandosi di soggetto pienamente capace d’agire. 

Il problema si porrà, pertanto, solo per coloro che abbiano subito un provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno anche solo parzialmente ablativo della loro capacità. In tal caso, essendo stati “impressi” dal Giudice alla misura in questione contenuti tali per cui la stessa risulta aver privato il soggetto della capacità, il trust sarà istituibile a beneficio del solo amministrato e potrà esser costituito anche a vantaggio di beneficiari ulteriori nelle sole ipotesi in cui ciò non sia specificamente escluso dal decreto di nomina. 

Dal punto di vista operativo è auspicabile una ripartizione di compiti tra trustee ed amministratore di sostegno: attribuendo al primo l’amministrazione dei beni ed al secondo l’adozione di tutto quanto necessario per la cura della persona.

Non si può peraltro escludere che la veste di trustee possa esser assunta dallo stesso amministratore di sostegno, onde evitare in radice possibili interferenze tra competente affidate a soggetti diversi.

All’amministratore di sostegno potrebbe altresì, attribuirsi, la veste di guardiano del trust, conferendogli oltre al potere di controllo anche quello di eventuale revoca del trustee ed nomina del suo sostituto.  

  1. Il testo riproduce la relazione tenuta all’evento formativo “La circolazione della ricchezza nella famiglia: strumenti negoziali e soluzione dei conflitti” tenutosi il 6 ottobre 2023 presso la Sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari. ↩︎

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