Il rischio dei gestori di una banca di fronte al potere sanzionatorio: alla ricerca di un equilibrio

Il rischio dei gestori di una banca di fronte al potere sanzionatorio: alla ricerca di un equilibrio

di Fabio Ciccariello1

È fin dagli albori dell’attività creditizia – e, dunque, dal tardo medioevo – che i gestori di banca si misurano col rischio, segnatamente quello “di credito”, e sono abituati a gestirlo: è un dato di comune conoscenza, d’altronde, che i banchieri lombardi, attivi a partire dal 1100 ben oltre i confini nazionali, in quanto fruttuosamente operanti in Francia, Germania ed Inghilterra, già conoscevano e utilizzavano efficaci tecniche di mitigazione del rischio di insolvenza.

Da allora, ovviamente, molta “acqua è passata sotto i ponti”, ma è qui interessante osservare come è solo sul limitare del ventesimo secolo che il tema della gestione strutturata del rischio ha assunto una propria centralità nel mondo bancario.

Se è vero, infatti, che è già dopo i fallimenti delle banche americane (c.d. Savings and Loans) legate ai rialzi dei tassi di interesse degli inizi degli anni ‘80 del secolo scorso che iniziarono a svilupparsi le prime tecniche di asset and liability management, basate sull’idea che le attività e le passività delle banche debbano essere gestite in maniera integrata e coordinata, è parimenti vero che è solo negli anni successivi alla crisi del mercato azionario USA del 1987 che le maggiori case di investimento americane si posero il problema di sviluppare propri modelli interni di misurazione (e gestione) dei rischi.

È a partire da tale momento, invero, che, in Italia, la rilevanza della funzione di risk management all’interno delle imprese bancarie è stata esplicitamente affermata dalla normativa prudenziale, con l’emanazione delle disposizioni sui controlli interni.

Nel rispetto della libertà imprenditoriale dei soggetti vigilati, sono state così delineate competenze e responsabilità delle funzioni di controllo e definiti i criteri cui deve ispirarsi la collocazione organizzativa e l’attività delle funzioni preposte alla gestione dei rischi: indipendenza, autorevolezza, professionalità.

La successiva evoluzione della regolamentazione bancaria ha rafforzato tale impostazione e le norme di Basilea 2 è, quindi, Basilea 3 hanno assestato un ulteriore giro di vite in materia. Ed il perché è evidente: l’incidenza del rischio di credito sul patrimonio di chi lo eroga, quando l’erogazione è, come per le banche, professionale, presenta una (intuitiva) valenza “sistemica”, incidendo sulla “stabilità” (non solo dell’ente erogante ma) di tutto il sistema economico e produttivo.

Oggi, dunque, agli amministratori delle banche spetta non solo definire l’ “appetito” per il rischio ma anche assicurare che la banca sia in grado di individuare, gestire e monitorare i rischi cui la sua attività è esposta; ed, a tal fine, spetta loro deliberare le strategie e controllarne la corretta implementazione, monitorando come il management attua politiche e scelte di rischio. L’efficacia e la correttezza dell’azione dei gestori di banca e il diligente adempimento dei loro obblighi condizionano, d’altronde, il grado di tutela offerto a investitori e clienti ed influiscono sullo stesso costo del capitale.

Resta il fatto che, sia consentito affermare l’ovvio, tra gli obblighi degli amministratori certamente non figura quello di gestire la società senza assumere alcun rischio; invero, la gestione di una società, di qualunque società è una gestione rischiosa, finanche quando – come è imposto per le banche – occorre che sia «sana e prudente». Antitetica alla gestione rischiosa, infatti, non è la gestione “sana e prudente” bensì la gestione “conservativa”: in altri termini, qualunque gestione di una società (e specificamente di una banca) mira alla ricerca di un plusvalore (utili, ristorni, benefici) dei quali sono innanzitutto (e naturalmente, salvo connotazioni particolari) i soci ad avere titolo di appropriarsi.

La prospettiva della “sana e prudente gestione”, propria delle banche, non esclude affatto tale “rischio”, connaturato ad ogni gestione imprenditoriale: impone, piuttosto, che questo rischio sia rapportato (anche) alla particolare natura dell’attività bancaria che richiede, per il suo stesso svolgersi, un equilibrio patrimoniale specifico sottoposto ad altrettanti specifici controlli (della Banca d’Italia) ed eventualmente sanzioni. Però, questo è il punto, la gestione degli amministratori anche di una banca è, e resta, per (amministratori e) soci, “rischiosa”. E il tasso di rischio è, per ormai pacifica giurisprudenza, escluso da ogni sindacato giurisdizionale e, quindi, non può essere oggetto di una responsabilità: proprio perché non v’è un obbligo di gestire senza rischiare; v’è, semmai, un obbligo di scelta gestoria non irrazionale. Si tratta di una preclusione ormai pacifica e nota come business judgment rule.

Ovviamente, ed è questo un altro punto decisivo, l’efficacia e la correttezza dell’azione dei gestori di banca, recte la valutazione della stessa, che dovrebbe essere necessariamente effettuata in una prospettiva ex ante, sempre più spesso risente del contesto e delle ricadute esogene di fenomeni macroeconomici che, inesorabilmente, inducono a valutare l’operato dei banchieri in una prospettiva ex post.

È innegabile, d’altronde, che nelle fasi congiunturali sfavorevoli anche l’attenzione del pubblico – vieppiù se sollecitata da “casi mediatici” – si accresce e il giudizio del mercato si fa più severo.

Né è un esempio la situazione economica – che trascende i patri confini e – che da oltre un decennio ci accompagna. La crisi finanziaria internazionale innescatasi nel 2008 ha indubbiamente messo alla prova la tenuta del sistema bancario italiano. A oltre due lustri dall’inizio della recessione, la stessa capacità delle banche di finanziare l’economia e sostenere la ripresa si è drammaticamente ridotta, cadendo sotto i colpi di maglio della crisi di liquidità e, più di recente, del forte aumento, appunto, del rischio di credito.

In situazioni come questa, i compiti e le responsabilità del gestore di banca sono sottoposti, ça va sans dire, a duro esame. Essere un buon banchiere – o, quantomeno, esser giudicato tale – diventa oggettivamente arduo: a fronte di un quadro macroeconomico che stenta a migliorare, non è facile coniugare adeguata prudenza nell’erogazione del credito, crescita della redditività, rafforzamento del patrimonio.

Per poter meglio comprendere tale affermazione, è allora il caso di precisare, esemplificando, che effetto diretto e immediato della crisi in parola è stato un significativo incremento del livello dei crediti deteriorati in tutta Europa (dove alla fine del 2014 ammontavano ad oltre 1 trilione di euro, ovvero più del doppio rispetto al 2009).

Da tale autentico ed endemico sconquasso sono scaturite, da un lato, la grave difficoltà del mondo imprenditoriale ad interpretare il momento e, così, a dirigere opportunamente le proprie scelte nel mercato, ai fini di poter adeguatamente affrontare la crisi medesima; e, dall’altro, l’estrema difficoltà per le banche tutte a gestire, nella contingenza, le domande di accesso al credito delle imprese nonché di porre in essere efficaci azioni di contrasto.

Tale difficoltà è stata poi aggravata anche dalla generalizzata incertezza in ordine alla percezione della crisi e della sua durata. Ne è eloquente testimonianza – volendo esemplificare – il “Rapporto sulla stabilità finanziaria” relativo al mese di dicembre 2010 della BI, lì dove il comparto immobiliare veniva dato dall’Autorità di vigilanza in «ripresa […] e, in prospettiva, di ulteriore miglioramento». Previsione, purtroppo, smentita dai fatti negli anni a venire: com’è tristemente noto, infatti, il settore immobiliare – la cui rilevanza è centrale per ogni istituto creditizio – è stato letteralmente devastato dalla crisi economica [tale circostanza è ben illustrata nel saggio, pubblicato a marzo 2015 dalla Banca d’Italia in “Questioni di Economia e Finanza (n. 263), intitolato “Mercato immobiliare, imprese della filiera e credito: una valutazione degli effetti della lunga recessione”].

Estremamente utili a comprendere la situazione in cui si sono trovate (tutte) le banche al verificarsi della crisi, sono le dichiarazioni rese dal Capo del Dipartimento Vigilanza bancaria e finanziaria BI, alla Commissione Parlamentare di inchiesta sul sistema bancario e finanziario (seduta n. 9 del 2 novembre 2017). Dopo aver premesso, in sintesi, che i crediti deteriorati sono derivati in gran parte dagli effetti della crisi economica sulle imprese affidate e dalla volontà delle banche (oggetto di inchiesta) di sostenere il territorio (il 70% dei debitori in crisi erano imprese, nella metà dei casi operanti nel settore delle costruzioni), la BI ha affermato, da un lato, che i crediti deteriorati «sono stati erogati prima del 2008 nel 20 per cento dei casi e dal 2008 al 2012 per quasi il 60 per cento dei casi» e, dall’altro, che «manifestazione della crisi – è normale in questi casi – è avvenuta da tre a cinque anni dopo l’erogazione. Quindi, è avvenuta un’erogazione a imprese che in quel momento potevano anche sembrare in salute e poi, dopo due, tre, quattro, cinque anni, a seconda dei casi, sono subentrati sintomi di problematicità». Al contempo, si riconosce espressamente – ed è questo interessante sottolineare – che da parte di molte altre banche, in particolare quelle di credito cooperativo – «c’è stata una sostanziale supplenza, nei confronti soprattutto di determinate categorie di imprese, nel momento in cui, essendoci una crisi, che però non era ancora così violenta, una parte del sistema bancario erogava meno credito e un’altra parte, appunto, ha compensato. L’ha fatto quando ancora le cose non andavano così male; poi purtroppo questo si è ritorto contro».

Ci si è trovati, in altri termini, in un contesto nel quale la “scelta” sull’affidamento o meno di un’impresa è venuta a confrontarsi con l’insita “doppiezza” della crisi stessa che, nell’immediato, “sconsigliava” le erogazioni del credito, potendosi rivelare foriera – così com’è stato – di risultati economici negativi per la banca; ed, al contempo, non essendo dato conoscere la durata della crisi, “consigliava”, in un’ottica di lungo periodo, tali erogazioni, volte a sostenere finanziariamente le imprese in difficoltà (specie quando il loro “valore” era riconosciuto dalla banca), con l’intento – lodevole o egoistico, non sta a me giudicarlo – di scongiurare il rischio “sistemico” derivante dall’indiscriminato ritiro degli affidamenti.

Situazione di assoluta incertezza, dunque, esacerbata dal fatto che gli effetti della crisi, così com’è fisiologico, sono venuti a manifestarsi, come puntualmente riconosciuto dalla medesima Autorità di vigilanza, svariati anni dopo la loro scaturigine, con le conseguenti difficoltà del sistema bancario di farvi tempestivamente fronte.

In un tale contesto, giudicare l’operato di un amministratore di banca non è operazione agevole. Con ciò, ovviamente, non si vuole di certo affermare che la crisi costituisca un fattore di per sé idoneo a neutralizzare i profili di responsabilità gestori. Ben più modestamente, si vuole osservare che l’eterogeneità (funzionale) e la complessità dei compiti richiesti agli amministratori, già di per sé ponderosa, in determinati contesti diventa tale per cui un giudizio sul loro operato – sub specie iuris, un giudizio di responsabilità – richiede una rigorosa quanto doverosa considerazione dei parametri di riferimento, onde verificare se e in che misura la loro condotta sia non iure o addirittura contra ius (riecheggiando, in tali ambiti, l’antica tematica romanistica della diligentia quam in suis).

Com’è noto, la Banca d’Italia esercita un controllo attento sul corretto assolvimento da parte dei gestori di banca dei propri compiti, concorrendo – attraverso l’azione combinata data dall’esercizio dei suoi poteri di regolamentazione, di vigilanza e sanzionatori – a determinare il regime di responsabilità a carico degli stessi, al pari delle altre fonti del diritto (civile, penale).

Sta di fatto che, se, da un lato, l’esistenza di più piani di enforcement rispecchia la particolare natura dei compiti di gestori di banca (la cui attività incide non solo sugli azionisti e sui creditori direttamente collegati con la stessa, ma su una ben più ampia e variegata categoria di risparmiatori e sulla collettività in generale), dall’altro, non è possibile pensare che, in sede sanzionatoria, siano utilizzabili canoni di valutazione della responsabilità degli amministratori diversi da quelli cui si fa riferimento in ambito civile.

In un tale complesso quadro, la ricerca di criteri valutativi utilizzabili al fine di ricondurre la materia, animata da elevata entropia, ad un (nuovo) equilibrio, non può prescindere (i) da una considerazione che affonda le sue radici nella letteratura tradizionale sulla responsabilità degli amministratori di società (nell’accezione più generale) e (ii) dalla presa di coscienza della necessità di una reductio ad unum dei criteri di imputazione della responsabilità, la cui fonte è sempre e comunque la violazione di un obbligo di diligenza.

Al fondo, da un punto di vista giuspolitico, si pone – oggi come allora – la dialettica tra due esigenze all’apparenza contrapposte (ossia, volendo mutuare le parola da Angelici): da un lato, non disincentivare l’assunzione di rischi da parte di chi alla gestione (dell’impresa) è preposto, poiché ne risulterebbe in un certo modo negata la tipica caratteristica dell’attività imprenditoriale, che è appunto quella di svolgersi in un contesto di rischi ed incertezza; dall’altro fornire adeguata tutela a coloro i cui interessi possono essere pregiudicati dalla gestione imprenditoriale medesima, quelli che direttamente ne subiscono le eventuali conseguenze negative e più ampiamente i soggetti del mercato in cui l’impresa opera.

Il trade off che pone la disciplina della responsabilità civile degli amministratori (anche di banca) è, dunque, chiaro: come affermato dalla medesima Consob in un recente studio, “misure troppo stringenti possono disincentivare l’assunzione di rischio, mentre misure troppo blande possono non assicurare un’adeguata tutela degli investitori”.

Non solo. Un regime di responsabilità severo può senz’altro indurre a comportamenti diligenti da parte del board, rispettosi degli interessi richiamati, perché accresce il costo-opportunità di condotte irregolari. Tuttavia, se troppo afflittivo, può avere un effetto paradosso: un’eccessiva “resistenza” al rischio nella gestione della società, la richiesta di compensi troppo elevati o di garanzie che possano “schermare” le condotte da eventuali azioni di responsabilità, la restrizione del novero di amministratori disposti a ricoprire il ruolo, anche con pericolosi effetti di selezione avversa (a vantaggio di manager più spregiudicati).

Ne discende che, per essere efficace, oltre che doverosamente equa, l’irrogazione delle sanzioni deve soddisfare l’esigenza di garantire un regime – e, dunque, un procedimento – equilibrato, ispirato e conformato al principio di ragionevolezza.

* * *

Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, le fattispecie sanzionatorie presuppongono sempre che la violazione sia imputabile all’autore a titolo di dolo o di colpa, in ragione di una sua azione od omissione cosciente e volontaria. Si pone, cioè, attenzione all’esigenza che, pur a fronte della progressiva dilatazione dei compiti dei gestori delle banche e di una azione di vigilanza sempre più incisiva, non si vada a sanzionare una responsabilità meramente oggettiva degli amministratori.

Il fatto è che occorre comprendere se ed in che misura tale affermazione – assolutamente condivisibile in astratto – non si risolva, de facto, in una petitio principii.

Analisi, questa, che implica talune assunzioni di fondo.

L’inadempimento ad un obbligo dell’ufficio (di amministratore) suppone l’individuazione degli obblighi dell’ufficio mentre la valutazione della colpa dell’agente richiede di relazionare lo stato soggettivo con la situazione concretamente esistente nel momento in cui si deve apprezzare la contrarietà alla legge (lato sensu) del comportamento omissivo o commissivo. Nel diritto vigente, specificamente, lo stato soggettivo è da relazionare a “dati personali” dell’agente, ossia la sua “specifica competenza”, e a “dati organizzativi”, derivanti cioè dalla “natura dell’incarico” (art. 2392, 1° co., c.c.). Il che, all’evidenza, determina assieme alla situazione concretamente esistente al momento in cui la condotta è osservata, il comportamento “esigibile” dall’agente.

Il principio da ultimo fissato è del tutto evidente rispetto all’attività di una banca nella quale il processo di erogazione del credito e la struttura organizzativa, amministrativa e contabile sono del tutto procedimentalizzati.

Proseguendo nel discorso deve ricordarsi che, per disciplina di diritto comune: (i) il Consiglio di amministrazione deve (prima approntare e poi) valutare l’adeguatezza dell’«assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società» (art. 2381, 3° co., c.c.); (ii) tale “assetto” è “curato” dagli «organi delegati» affinché sia «adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa» (art. 2381, 5° co, primo periodo, c.c.): gli organi delegati, quindi, attuano gli “assetti”, scelti e valutati “adeguati” dal Consiglio di amministrazione; è solo con l’attuazione, infatti, che può curarsi l’adeguatezza degli assetti in relazione alla “natura” ed alle “dimensioni dell’impresa” (in altri termini, gli assetti della «società» sono “testati” rispetto alla “impresa” svolta); conseguentemente, dei risultati di questo “test all’atto pratico” gli organi delegati devono informare costantemente sia il Consiglio di amministrazione sia il Collegio sindacale (art. 2381, 5° co., secondo periodo, c.c.). Nelle società bancarie, tali obblighi si specificano, appunto, per quanto qui interessa, nella costituzione, di concerto con l’alta direzione, di un sistema dei controlli interni comprensivo del controllo di tutti i tipi di rischio, incluso il “rischio di credito”, ossia quello derivante dalla possibilità che il debitore si riveli inadempiente. Ed allora è altrettanto evidente che gli obblighi degli amministratori inerenti al rischio di credito siano dettagliati nella normativa regolamentare dell’Autorità di vigilanza sul settore.

Nelle società bancarie, in particolare, si impongono “assetti” specifici, organizzativi, amministrativi e contabili e un processo di erogazione del credito da formalizzarsi in documenti (la regolamentazione sul credito), sì da pre-individuare, per così dire, una volta per tutte e salvo aggiornamenti, le modalità di svolgimento dell’erogazione e di controllo su di essa.

Per le banche, che la procedimentalizzazione dell’attività sia imposta e regolata dall’Autorità di vigilanza è del tutto comprensibile, ponendosi per le stesse anche l’obbligo a mantenere un patrimonio “qualificato”, il c.d. patrimonio di vigilanza, costantemente pari ad una data percentuale delle esposizioni ponderate per il rischio di inadempimento. Resta il fatto che la scelta della regolamentazione sul credito è una scelta tipicamente “gestoria” e come tale non sindacabile da parte dell’Autorità giudiziaria purché, lo si è già detto, si presenti come non irrazionale secondo le informazioni disponibili ex ante. E non potrebbe non essere una scelta discrezionale nella misura nella quale non vi sono prescrizioni giuridiche che indichino quando un “sistema degli assetti” è “adeguato” e quando non lo è; e neppure vi sono prescrizioni giuridiche che individuino un “modello” al quale conformarsi per essere “certi” dell’adeguatezza. Ebbene, queste regole giuridiche non vi sono. Certo, l’Autorità di vigilanza orienta la scelta sugli “assetti”: sia ex ante, con la normativa secondaria sulla governance; sia ex post, sanzionando assetti che essa reputa inadeguati. Ma, e questo è il punto, si tratta, di criteri comunque generali e non di dettaglio.

Dal che consegue una oggettiva incertezza nella specificazione della condotta dovuta, che si riflette in una conseguente e pericolosa opinabilità del giudizio di responsabilità in ordine alla diligente scelta ed implementazione degli assetti.

Tale criticità – venendo allo specifico profilo del rischio dell’amministratore di banca di fronte al potere sanzionatorio – è acuita dalla circostanza che, come costantemente affermato dalla giurisprudenza, anche in materia di sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia vige il principio per cui la colpa si presume, sì che incombe sugli incolpati l’onere di dimostrare – con allegazioni precise e circostanziate – le ragioni in virtù delle quali essi debbano andare esenti da colpa per le irregolarità accertate e contestate. Si chiede, dunque, all’amministratore di banca, per sottrarsi all’addebito, di provare che un’attività – quella oggetto di procedimentalizzazione – sia stata diligentemente posta in essere, a fronte della presunzione di colpa derivante da accertamenti (dell’autorità di vigilanza) che concernono specifiche (ancorché) plurime “irregolarità”.

Per tale via, si finisce col desumere un’attività non jure da alcuni comportamenti relativi a talune selezionate operazioni oggetto di accertamento in sede ispettiva, valutate non jure e, dunque, sanzionate.

Sennonché, appare evidente che, per valutare se un complesso di comportamenti sia jure o non jure, bisogna assumere un punto di riferimento che consenta di prescindere dalla valutazione (di conformità o meno al diritto) del singolo comportamento. Per far ciò, tuttavia, si deve scegliere un “parametro”, che consenta di selezionare “quanti e quali” comportamenti rendano il “complesso” di comportamenti non jure. Anche perché, come insegna Falzea, fenomenologicamente, non v’è alcun “complesso di atti” ma solo comportamenti dell’essere umano che sono assunti dall’ordinamento o come singoli atti o, a date condizioni e, appunto, attraverso un “parametro” o un “punto di riferimento”, siccome attività.

In definitiva, aderendo all’opzione ermeneutica sovente fatta propria dalla giurisprudenza si giunge ad una situazione di stallo: da un canto, v’è la presunzione di comportamento “complessivo” non jure radicato in un documento (il provvedimento sanzionatorio della BI) rispetto al quale l’incolpato del comportamento non ha strumenti tecnici di confutazione, di eguale attendibilità e forza probatoria (in senso lato); dall’altro e di conseguenza, l’incolpato deve superare quella presunzione dimostrando di aver posto in essere singoli atti che complessivamente considerati sono valutabili come jure, senza tuttavia sapere quanti e quali singoli atti debbano a tal fine “sommarsi” e senza poterli raffrontare ad un “punto di riferimento” paragonabile (secondo il sindacato giurisdizionale) a quello, “privilegiato” (se così si può dire), dell’Autorità.

È allora evidente il rischio che la ricostruzione della responsabilità degli amministratori – pur costantemente affermato dai giudici e dalla stessa BI – per “fatto proprio” e per “colpa” rischi di venir percepita come una mera fictio iuris, non essendo dato chiaramente comprendere come, coloro ai quali, in sede sanzionatoria, è ascritta la responsabilità, possano esonerarsi dalla stessa.

Né sembra prestare soccorso l’opzione ermeneutica, del tutto pacifica, offerta dagli arresti, anche quelli più recenti, della giurisprudenza di legittimità, laddove si ribadisce, sia pur con diversità di accenti, la massima secondo cui, leggo testualmente, il legislatore «in materia di sanzioni amministrative […] ricollega il giudizio di colpevolezza a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, limitando l’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della “suità” del comportamento inosservante, con la conseguenza che, una volta integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dalla [l. n. 689/1981] l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza» (Cass. n. 9546/2018).

La criticità, a mio avviso, nasce proprio dall’accoglimento di una ricostruzione dommatica consentanea ad un quadro di riferimento non più pertinente in quanto anteriore all’innovazione introdotta dall’art. 24 della l. n. 262/2005 (con specifico riferimento ai procedimenti dinanzi alla Banca d’Italia e ad altre, selezionate, autorità) e dalla novella dell’art. 145 TUB del 2015; innovazione in forza della quale – a differenza del sistema tracciato dalle leggi “generali” sul procedimento amministrativo (l. n. 241/1990) e sulle sanzioni amministrative (l. n. 689/1981) – all’incolpato deve essere garantito un procedimento retto dal principio del contraddittorio e, così, il pieno ed effettivo rispetto del diritto di difesa.

Quelle leggi “generali”, specie quella del 1981, si riferiscono ad un contesto che è oggi profondamente mutato; e ciò, in ragione sia della radicale riscrittura delle regole sulla vigilanza prudenziale e dello sviluppo dei mercati bancari e finanziari, sia dell’integrazione dell’ordinamento italiano con la normativa europea che ha provocato un incremento significativo e del tutto inedito delle funzioni delle Autorità di vigilanza, collocandole in una posizione di singolarità, tra funzione legislativa, pubblica amministrazione e giurisdizione.

Invero, non può sfuggire che la concentrazione di “funzioni” (o “poteri”?) in capo alla Banca d’Italia – così come similmente avviene per la Consob e le altre authorities – ha segnato una significativa rottura dei pilastri che reggono l’organizzazione dello Stato, quali il principio di legalità e quello di responsabilità (politica) ministeriale, favorendo il superamento della classica tripartizione dei poteri (la cosiddetta trias politica) di montesquiana memoria, mediante l’introduzione di un “quarto portere” che concentra al suo interno i tratti salienti di ciascuna delle tre potestà pubblicistiche tradizionali. Il che riproduce e perpetua nell’attuale momento storico la “detipizzazione” che da tempo investe le classiche funzioni statali rendendo – come descritto dalla dottrina più lungimirante – “più che mai arduo distinguere per separate imputazione la normazione o l’esecuzione oppure l’attuazione”. Il che, ulteriormente, rende, se possibile, ancor più complesso il quadro di riferimento nel cui ambito si colloca il tema della potestà sanzionatorio e (del giudizio) della responsabilità per l’attività di gestione dell’impresa bancaria.

Pertanto, è in tale (nuova) prospettiva che deve essere data una risposta all’interrogativo su quale sia il quadro di riferimento – sotto un profilo assiologico e normativo – del procedimento sanzionatorio intestato alla Banca d’Italia, considerando che nell’assolvimento delle sue precipue funzioni ispettive la stessa “incide” su una pluralità di interessi che non possono non essere considerati. Non solo, si badi, gli interessi degli (amministratori) incolpati, ma anche quelli dell’intero mercato, laddove solo si consideri che le “indagini” possono riguardare (e normalmente riguardano) enti con partecipazioni diffuse tra il pubblico, tipicamente quotate. Proprio in tema di soggetti vigilati, si vorrebbe ancora dire, la certezza del diritto è un profilo fondamentale: essendo i soggetti vigilati uno strumento di investimento nazionale ed internazionale.

Il mutato contesto, come sin qui compendiato, impone dunque risposte dell’ordinamento adeguate; e se il legislatore è silente è compito del Giudice trovare soluzioni idonee, interpretando, secondo ragionevolezza, il dato normativo esistente alla luce dei principi ricavabili dal sistema, così come innovato dagli interventi succedutisi a partire dal 2005. Interventi che, tuttavia, sembrano essere non adeguatamente riconosciuti e valorizzati dalle nostre corti, le quali continuano ad aderire ad una ricostruzione giuridica propria di un sistema non più attuale, dando applicazione – erronea in quanto esclusiva – alla legge sulle sanzioni amministrative (l. n. 689/1981), così continuando ad inquadrare l’Autorità nell’ambito di un sistema obiettivamente inattuale e superato.

Ciò si badi, non vuol dire negare tout court l’applicazione, nei suoi tratti generali, della disciplina di cui alla l. n. 689/1981, ma, ben più ampiamente, andando oltre, invitare l’interprete alla doverosa presa di coscienza che, oggi, le autorità di vigilanza sono poste dall’ordinamento in una posizione di specialità, sì da richiedere, diversamente da altre autorità amministrative e, in generale dalla p.a., non già una mera partecipazione al procedimento dell’incolpato, ma un’effettiva e sostanziale difesa “a parità di armi” tra quest’ultimo e l’autorità procedente.

In tale mutato contesto, continuare ad invocare la l. n. 689/1981 quale unico referente normativo deve ritenersi un’opzione ermeneutica da rigettare in quanto contraria al dato sistematico: quella legge si riferisce ad un assetto del pubblico potere del tutto diverso da quello attuale, in cui la potestà sanzionatoria di talune Authorities (e tra queste, la Banca d’Italia) si caratterizzano per la peculiare finalizzazione alla “effettività” della funzione di regolazione alle stesse assegnate; il che (ossia il riconoscimento della strumentalità della potestà sanzionatoria rispetto ai poteri regolatori) implica la necessità di soffermarsi sulle modalità con cui questi poteri si estrinsecano, onde garantire un procedimento “giusto”.

Vieppiù considerando che la neutralità, la paragiurisdizionalità, la competenza tecnica e l’indipendenza – consustanziale allo svolgimento della funzione di regolazione e vigilanza – che connotano tali autorità (assenti nel contesto della l. n. 689/1981), sono peculiari prerogative che debbono essere necessariamente bilanciate da un rigoroso rispetto dei principi costituzionali della difesa e del contraddittorio.

E quanto appena detto trova pieno conforto nell’evoluzione normativa: prima delle riforme del 2005, la potestà sanzionatoria era attribuita al Ministero del Tesoro su proposta della Banca d’Italia e la relativa regolamentazione aveva coerentemente una rilevanza endoprocedimentale (riferendosi ad un procedimento che non si esauriva “davanti” all’autorità di vigilanza); con la l. n. 262/2005 è stato ridefinito il ruolo (anche) della Banca d’Italia, obbligando, conseguentemente, la stessa alla formalizzazione ed all’attuazione del principio della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisori e di piena partecipazione al procedimento dell’incolpato in un regolamento; con la novella dell’art. 145 TUB ed in coerenza all’evoluzione della normativa comunitaria in materia la potestà sanzionatoria si è concentrata, quindi, in via esclusiva sulla Banca d’Italia, sì da rafforzarne l’indipendenza e l’efficacia regolatoria, al contempo introducendosi una disciplina del procedimento che tutelasse il destinatario, attraverso, in primo luogo, il principio del contraddittorio. Principio cui si ispira il nuovo Regolamento adottato dalla Banca d’Italia con provvedimento del 3 maggio 2015.

Ed è a questo mutato quadro normativo che ruolo del Giudice – chiamato a pronunciarsi sulla legittimità e fondatezza delle sanzioni irrogate dagli organi di vigilanza – diviene, ancora una volta, decisivo, spettando a lui orientare la prassi applicativa, adeguando il diritto vivente e restituendo razionalità al formante giurisprudenziale in materia di sanzioni amministrative delle autorità regolatrici del mercato. Authorities, le quali, dal canto loro, proprio per le speciali garanzie di indipendenza assicurategli e per la particolare «posizione di “dominae” degli specifici settori loro affidati», continuano – sia consentito, in conclusione, dirlo – a tradire una certa “refrattarietà” rispetto alla sottoposizione del loro operato alla piena cognizione giurisdizionale.

  1. Il testo riproduce il contenuto dell’intervento al Convegno “Le sanzioni della Banca d’Italia e della Consob e l’impresa: tra punizione, regolazione e conformazione”, tenutosi a Brescia, 12 aprile 2019, presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università degli Studi di Brescia. ↩︎

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